Ebola: oltre la notizia

Foto: Giada Cicognola
Foto: Giada Cicognola

Voci di corridoio e informazioni reali, notiziabilità e voglia di raccontare storie autentiche, informazione giornalistica e ricerca scientifica. Questi i temi contrapposti di cui si è trattato nell’evento “Ebola: oltre la notizia”, giovedì 16 aprile. Lou Del Bello (SciDev.net) ha scandito l’intreccio di punti di vista dei giornalisti Charlie Cooper (corrispondente per The Independent), Sarah Boseley (health editor per il Guardian) e Kate Thomas (caporedattrice di Ebola Deeply) e dei medici Geraldine O’Hara (Medici Senza Frontiere) e Lawal Bakare (CEO di Ebola Alert).

Qual è stato il problema principale dei media occidentali nel presentare l’emergenza Ebola?

Boseley, che in Africa ha condotto lunghe e accurate ricerche sul tema, non ha dubbi nell’affermare che la maggior parte dei giornali si è avvicinata alla questione soltanto quando questa ha colpito da vicino Europa e Stati Uniti. Come fa notare O’Hara infatti, la crisi in Africa Occidentale è scoppiata nel marzo del 2014 ma è diventata “degna di nota” per i media occidentali soltanto ad agosto, quando i primi soggetti statunitensi ed europei sono stati contagiati dal virus.

Il giovanissimo Cooper, 26 anni, conferma la tendenza dell’Occidente, centrando il focus sulla Gran Bretagna, a preoccuparsi dell’epidemia soltanto in relazione a sé stesso, senza considerare la catastrofe in corso in alcuni paesi del continente africano. “L’Ebola è un fenomeno insolito”, afferma, “in Gran Bretagna si vedeva una scarsa connessione con i paesi colpiti, con quella zona remota del mondo”.

Proprio per contrastare questa tendenza, Thomas, giovane giornalista che in Africa ha vissuto per ben sette anni – di cui tre in Liberia – , si è ritagliata uno spazio con Ebola Deeply, un progetto digitale indipendente che si propone di “aggiungere un contesto al contenuto”. Grazie a questo progetto l’isteria febbrile instaurata dalla stampa occidentale lascia spazio a informazioni esatte che non subiscono l’influenza di inutili suggestioni. “In Africa ci sono moltissime storie affascinanti e non raccontate, ma nelle testate occidentali l’interesse non è sufficientemente alto a pubblicarle ”.

Ma per divulgare certe notizie, per raccontare queste storie, puntualizza Del Bello, bisogna essere coraggiosi, bisogna andare contro il principio della notiziabilità e capire che nel nostro mondo globalizzato anche l’Africa ci riguarda. E questo l’Ebola ce l’ha fatto capire.

Chi è riuscito a dare voce all’Africa in questa situazione critica è sicuramente Lawal Bakare, medico dentista che con il suo Ebola Alert ha portato avanti un’importante campagna di sensibilizzazione verso l’epidemia, disseminando informazioni piuttosto che sensazioni. La prospettiva del suo progetto è innovativa, poiché i social media, in particolare Facebook e Twitter, hanno svolto un ruolo fondamentale nella raccolta e nella diffusione di prove scientifiche e nella gestione delle cosiddette voci di corridoio. L’obiettivo principale è stato quello di fornire misure di prevenzione e procedure sanitarie standard online per fronteggiare con consapevolezza la malattia. Gli strumenti digitali si sono rivelati essenziali per la diffusione di queste informazioni. Inoltre, quando il virus è comparso negli Stati Uniti, il numero di follower dell’account Twitter ha subìto una crescita esponenziale. Questo servizio di informazione, da operatore locale, si è trasformato, uscendo dalle frontiere, in un vero e proprio osservatorio. Forse per la prima volta, l’Africa è riuscita a parlare al mondo intero.

Del Bello ha quindi focalizzato l’attenzione degli speaker sui problemi che questi hanno riscontrato maggiormente nel confronto con i media durante il loro lavoro. Per Cooper l’impatto più dannoso è indubbiamente costituito dai rumors. Per far capire quanto le informazioni non verificate possano influenzare l’opinione pubblica, cita un grave episodio verificatosi lo scorso ottobre. Quando il capo della missione ONU in Africa Occidentale ha lanciato sul Telegraph una dichiarazione secondo cui la trasmissione del virus poteva avvenire non soltanto attraverso i fluidi corporei ma anche per via aerea, la reazione generale è stata incontrollabile. Smentire le informazioni fallaci e sradicarle dalla visione collettiva, specialmente se rilasciate da fonti così eminenti, è un’impresa pressoché impossibile.

Sull’autenticità delle fonti si sofferma O’Hara, che da medico si dice “frustrata” quando i giornalisti non si curano di verificarle con precisione chirurgica. Sottoscrive Boseley, per la quale l’attendibilità e la qualità delle fonti è vitale al fine di ottenere informazioni autentiche, che necessitano in seguito di essere contestualizzate e trasmesse con toni moderati, in modo da evitare allarmismi inutili e reazioni apocalittiche. È infatti per evitare ciò che i paesi colpiti, economicamente fragili, spesso tendono a non lasciar trapelare facilmente le informazioni, mossi dalla paura di ripercussioni negative sulla propria già instabile economia.

In relazione alla responsabilità giornalistica, Del Bello mette sul tavolo un interrogativo interessante: in che modo può procedere in una situazione di questo tipo un giornalista giovane e inesperto ?

La soluzione più ragionevole sarebbe quella di inviare sul campo soltanto giornalisti esperti e non generalisti, che rischiano di trattare il fenomeno come mera politica estera e di generare notizie che poco hanno che fare con la situazione reale, afferma Boseley. Il consiglio unanime che tutti gli speaker presenti si sentono di dare ai giovani giornalisti è quello di imparare sul campo, di conoscere a fondo il contesto culturale in cui si opera, di evitare la stigmatizzazione delle popolazioni colpite e di conseguenza, degli stessi paesi. Un fattore che genera pressione nei giovani reporter è il fatto che devono scrivere una buona storia che sia accattivante ma anche autentica.

Nell’introdurre le domande successive Del Bello fa riferimento al panel sulla disinformazione perpetrata dai media occidentali sull’Africa, in cui è stato evidenziato con quanta approssimazione il giornalismo mainstream si dedichi alle questioni del continente nero. C’è alla base un problema di formazione? È necessario comunicare secondo standard condivisi?

Per Bakare è vitale che sia i giornalisti locali che quelli esteri instaurino un dialogo tra loro e adottino un glossario specifico per evitare di commettere errori e di diffondere notizie false. In considerazione dell’impatto drastico che i media riescono a raggiungere su un’elevatissima fetta della popolazione mondiale e che viene coinvolta anche la sfera della salute pubblica, bisognerebbe adottare un protocollo standardizzato. Tutti i giornalisti devono conoscere le basi dell’informazione e, in casi delicati come questo, essere in grado di trattare l’argomento in maniera equilibrata, per non incorrere in casi di cattiva informazione come è successo con la CNN.

Quando si parla di Ebola si pensa a un’entità astratta. Ma spesso ci si dimentica che si parla innanzitutto di persone. E il modo migliore per superare l’impatto della malattia è quello di raccontare le storie di chi sulla propria pelle ha vissuto, vive e ha superato la malattia. Come gestire dal punto di vista giornalistico l’aspetto umano del caso?

Una questione importante di cui il giornalista deve tener conto è quella della privacy. Molte persone tra i sopravvissuti al virus si rifiutano categoricamente, talvolta negano ostinatamente, di essere stati contagiati per paura dell’ostracizzazione da parte dalla propria comunità. Soprattutto in zone rurali come la Sierra Leone, il giornalista che riporta le storie deve aver cura di cambiare i nomi e le situazioni. Per sconfiggere la paura e le false credenze bisogna coinvolgere i protagonisti diretti di questa tragedia, entrare in relazione con loro, dar loro voce.

L’allarmismo e il terrore nascono dall’impellente bisogno dei lettori di avere una risposta certa, dalla ricerca di sconfiggere l’incertezza di fronte al virus. “Le persone sono pronte a fronteggiare un non lo so come risposta? Genera sconforto o è accettabile?”. A questa domanda del pubblico, Boseley è inflessibile: “Le persone pensano che ci debba essere una risposta. In realtà non ci sono risposte nette, la scienza non può fornire risposte certe. Molte persone non capiscono il concetto di rischio”.