Giornalismo e terrore sul web: avere a che fare con la rappresentazione della morte

Mark Little è l’inventore di Storyful, la piattaforma che dal 2009 monitora i social più importanti e offre ai media un servizio di selezione ed elaborazione dei contenuti più valuable, ossia virali, monetizzabili, interessanti. Siede al centro del tavolo del Centro Servizi Alessi, a Perugia, e modera il panel Il giornalismo del terrore: come testimoniare quando sono tutti testimoni?”. Alla sua sinistra Ben de Pear, che dopo una carriera ventennale è ora editor di Channel 4 News. Alla sua destra Chris Hamilton, social media editor della BBC, e Claire Wardle, Research Director al Tow Center for Digital Journalism della Columbia School of Journalism di New York.

Introducendo il tema del dibattito, Little comincia con una considerazione: in un recente passato, i giornalisti erano gli incontrastati gatekeeper di ciò che compariva nella sfera pubblica – opinioni, immagini, semplici notizie – mentre oggi diffondere il proprio messaggio è molto più semplice e immediato. Pur sembrando ovvio, questo implica conseguenze complesse da monitorare, approfondire, gestire. Soprattutto quando questa facilità di comunicare è in mano a gruppi terroristici come l’ISIS, che la sfruttano per la loro propaganda.

Anche de Pear fa un paragone con i tempi andati. Quando lavorava da producer a Channel 4, il limite nella condivisione di immagini scabrose consisteva nel fatto che il telegiornale delle 19 rischiava di essere visto da soggetti impressionabili, come minorenni. Le nuove tecnologie, invece, portano ad affrontare nuove sfide e decisioni da prendere con fermezza. La policy scelta da Channel 4 è quella di non mostrare le immagini dei prigionieri e di trasmettere solo l’audio dei noti video di Jihadi John.

In generale la scelta è tra due vie: non mostrare mai nulla o valutare caso per caso. Secondo De Pear, a volte, contestualizzando, è necessario mostrare contenuti duri anche in tv, poiché non tutto il pubblico che vuole informarsi accede a internet. Questo è specialmente vero in un paese come l’Italia, dove l’analfabetismo digitale è ancora forte.

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Hamilton nota che, sebbene la narrativa dell’ISIS abbia rappresentato un picco di violenza mediatica, quello tra 2014 e 2015 è stato in generale “a very tough year”. Hamilton sostiene che è ormai tempo che anche i media considerino, quando riportano fatti tragici, l’eventuale “trauma risk management” dell’audience. “ISIS puts things on a different level”, afferma. Wardle si chiede: “How do we cover that moment of death?”. È fondamentale capire come avere a che fare con un flusso libero e continuo di informazioni e contenuti, soprattutto perché “it’s not going to stop”.

A questo riguardo, De Pear sostiene che la sempre maggior diffusione dei telefoni cellulari dà la chance ai cittadini di riportare storie all’attenzione di audience crescenti, e che proprio per questo una news organisation non può più fare a meno di raccontarle: “You can’t pretend it didn’t happen”. Piuttosto, come anche Little conferma, diventa fondamentale spiegare al meglio le radici di queste storie: “The role of journalists is to add context”.

Tornando agli effetti che la visione di contenuti violenti può avere sulle audience, una ricerca di Wardle e del suo Tow Institute ha individuato fette di pubblica opinione che provano sincero disagio quando questo accade. E la stessa Wardle si appella sia alle organizzazioni mediatiche nel loro complesso che ai giornalisti attivi sui social media affinché valutino l’effetto di un’immagine di morte completamente decontestualizzata.

Tra le domande poste dal pubblico agli speaker, una riguarda il cospirazionismo che spesso avvolge i materiali più terrificanti, compresi i video delle decapitazioni firmati ISIS. Little afferma che spesso la pubblica opinione è troppo impressionata per credere che certe cose accadano davvero, ma che ci può anche essere una motivazione politica dietro questo atteggiamento. Secondo de Pear, troppi giornalisti perdono intere giornate a discutere sui social con convinti cospirazionisti, e consiglia di ignorarli. Un altro tema sollevato riguarda invece la verifica dei contenuti che arrivano dalla rete: a tal proposito, Wardle suggerisce la consultazione del Verification Handbook, liberamente fruibile su internet. E, rispondendo a un’altra domanda, sottolinea la necessità della più completa formazione possibile per i giovani giornalisti alle prese con materiale trovato sul web. Nell’era dei fake, delle bufale, della violenza esagerata e gratuita, sembra non essere più un optional.