Il caso Regeni: tra ricerca della verità e ruolo del giornalismo

Perugia, 6 aprile 2016 – Carlo Bonini e Giuliano Foschini, i due giornalisti di Repubblica che si stanno occupando del caso sul ricercatore italiano – scomparso il 25 gennaio scorso e trovato morto il 3 febbraio al Cairo – Giulio Regeni, sono intervenuti in una sala Raffaello gremita di persone durante il Festival Internazionale del Giornalismo, giunto alla sua decima edizione.

Il panel ha messo sin da subito in chiaro quanto l’inchiesta giornalistica abbia presentato – e presenti tuttora – numerose difficoltà oggettive; dall’altro lato però mostra come un giornalismo portato al suo limite possa aiutare a far svegliare le coscienze in uno stato non democratico come l’Egitto. L’omicidio del 28enne è diventato un caso italiano, poi bilaterale, fino ad avere un richiamo internazionale sulle pagine del New York Times allargando la questione alla stabilità interna in Egitto e al rispetto dei diritti umani nel paese.

Bonini sviscera gli ostacoli che da subito hanno dovuto affrontare: “Regeni muore in un paese non democratico, in un regime, dunque un paese dove il grado di trasparenza è pressoché nullo”. Le caselle di posta de La Repubblica, così come quella personale di Foschini, sono state intasate da molte e-mail anonime. Troppe persone sono disposte a parlare, ma allo stesso tempo non vogliono correre il rischio di rivelare la propria identità.

Un tema delicato è stato proprio relativo alla scelta di pubblicare l’e-mail anonima ricevuta in redazione. Perché si è deciso di pubblicare questo contenuto e non quello presente in altri messaggi? L’Anonimo svela tre dettagli mai rivelati prima e conosciuti solo agli inquirenti italiani, emersi dalla autopsia. Giulio Regeni avrebbe subito una serie di torture progressive una volta trasferito “in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City”: “bastonature sotto i piedi”, “colpi con una sorta di baionetta” e “spegnimento di mozziconi di sigaretta sul collo e le orecchie”. Il fatto poi che le testimonianze siano state riportate in italiano, inglese e arabo permette a Bonini di supporre che l’Anonimo non sia un singolo individuo, ma unisca diverse testimonianze. A fronte di questo, Bonini sottolinea la virtuosità della scelta giornalistica di incrocio delle dichiarazioni con gli unici dati certi fatta dal suo giornale e, in complesso, dagli altri media italiani. Secondo Foschini, il lavoro dei mezzi di informazione ha spinto la politica a essere migliore quello che è abitualmente e ha aiutato l’opinione pubblica a chiedere compatta la ricerca della verità.

Bonini segnala inoltre due fatti, avvenuti in Egitto dopo la pubblicazione della testimonianza anonima, che deporrebbero a favore della sua verosimiglianza, cioè che il servizio di messaggistica istantanea Signal sia stato sospeso per ore e che il sito egiziano che ha veicolato la testimonianza non sia più raggiungibile.

Dal pubblico viene posta una domanda critica riguardo al modo in cui il direttore Mario Calabresi ha impostato l’intervista col presidente egiziano Al Sisi. Bonini, affermando comunque di non potersi sostituire a Calabresi nel rispondere, difende l’operato del proprio collega, dapprima presentando altri esempi di interviste a dittatori e capi di Stato esteri, poi concentrandosi sul contenuto dell’intervista, che parrebbe comunque aver turbato una parte degli apparati di sicurezza egiziani: “se c’è una spaccatura tra la procura generale, a cui di fatto Al Sisi ha consegnato le chiavi di questa inchiesta sul lato egiziano, e il Ministero dell’Interno e gli apparati di sicurezza egiziani è anche frutto di quelle parole e di quell’impegno pubblico preso da Al Sisi, che, per quanto noi abbiamo potuto verificare, non è piaciuto affatto a un pezzo degli apparati egiziani, che hanno ritenuto quell’intervista una gravissima violazione di quel patto di silenzio e di omertà che lega gli apparati egiziani e che lega soprattutto un esecutivo che è figlio di un golpe militare”.

Quali insegnamenti sta dando questa vicenda al ruolo del giornalismo? Entrambi gli ospiti si trovano concordi nell’affermare che di fronte alla completa assenza di fonti di prima mano è necessario, oltre che doveroso se si vuole portare a termine la propria missione, andare di prima persona sul campo: “un conto è leggere la descrizione del luogo dove è stato ritrovato il cadavere di Giulio Regeni, un altro è vederlo”. Dal racconto dell’esperienza di Foschini si coglie come non sarebbe mai potuto arrivare alla conoscenza dell’arrivo della polizia, che ha chiesto il controllo dei documenti ai vicini della casa in cui abitava Giulio prima della sua scomparsa, se non ci fosse andato di persona e non avesse parlato con i testimoni diretti. Quanto ai social media, Foschini sottolinea l’importanza di utilizzare i mezzi tecnologici “come opportunità e non come scorciatoia”

Quali sono le tutele che un freelance, e più in generale le nuove generazioni di giornalisti, hanno in casi come questi? L’invito è ancora una volta quello di vivere le situazioni e non essere timidi nell’andare a indagare di prima persona situazioni che si presentano sin dall’inizio come poco chiare: secondo Bonini, la difficoltà del seguire tali notizie senza tutele “non deve diventare un alibi”. Nel contempo, suggerisce come l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe dedicare maggiore attenzione ai professionisti non tutelati da un contratto e dagli investimenti di una grande testata.

A fronte delle 88 persone scomparse in Egitto nei primi tre mesi del 2016, delle quali 8 sono state ritrovate con segni di tortura, la morte di Giulio Regeni non può e non deve essere considerata come caso isolato.