Il trauma secondario dei giornalisti: un problema primario

Fare il giornalista, anche nel 2016, anche svolgendo un lavoro di newsroom e non ‘sul campo’, anche guardando la realtà attraverso uno schermo, può rivelarsi più traumatico di quanto si immagini. È quello che viene premesso immediatamente da Gavin Rees, direttore del Dart Centre Europe, un progetto della Scuola di Giornalismo della Columbia University dedicato alla promozione di approcci etici e innovativi nella copertura di episodi violenti e traumatici.

Il ‘trauma secondario’ viene infatti sperimentato dalle persone che assistono a immagini violente in maniera ripetuta o inaspettata. Tra gli effetti collaterali: l’impressione, anche totalmente fuori contesto, di ritrovarsi nel luogo dove si è manifestata l’immagine che ha causato il trauma. Kate Riley, che negli ultimi cinque anni ha gestito il Trauma Risk Management Network della BBC, nota quanto, a causa del flusso continuo di User Generated Content – e non solo – sui social media, i giornalisti che lavorano all’elaborazione di materiali in redazione e al monitoraggio della rete siano sempre più sottoposti a questo tipo di immagini. Il trauma non è più una prerogativa dei corrispondenti esteri o di guerra, insomma.

È a questo punto che Sam Dubberley, co-fondatore dell’Eyewitness Media Hub, ci parla della ricerca sul trauma secondario, svolta col suo team intervistando decine di giornalisti. Da questa ha colto una serie di conclusioni, tra cui l’importanza che ha, nel provocare il trauma, l’effetto-sorpresa: vedere immagini orrende senza preavviso e accorgersi dopo pochissimo che non fa bene. E, ancora, la difficoltà dei reporter a parlare in redazione, a dire “Non mi sento a mio agio con questa immagine, con questo materiale”: accade soprattutto ai nuovi arrivati.

Per Andy Carvin, che è a capo di Reported.ly, team di global reporting di First Look Media, la cosa fondamentale è tenere una comunicazione aperta in maniera costante con i colleghi su ogni possibile disturbo, perché “alcuni non ne parlano fin quando non fa davvero male”. Secondo Carvin è fondamentale spiegare il perché e il come di immagini del genere, e usa come esempio le riprese in prima persona dell’omicidio in Virginia, girato per alcune ore in rete senza alcun filtro.

“It’s not the image itself, but the meaning of the image” (“Non è l’immagine in sé, ma il significato dell’immagine”), aggiunge Gavin. È per questo che un ruolo fondamentale del giornalismo di oggi e dei prossimi anni sarà quello di editare, cambiare il ritmo, adattare qualsiasi materiale provenga dalla Rete per renderlo digeribile al pubblico. Insomma: qualcuno sarà comunque sempre costretto a vedere. Come prevenire i traumi? Con l’esercizio e col training, come aggiunge Riley. E parlandone, soprattutto, senza nacondersi dietro l’apparente imperturbabilità del giornalista: il trauma secondario è un problema. Primario.