La voce di chi non è libero: giornata mondiale della libertà di stampa

Foto: Giovanna Ortugno
Foto: Giovanna Ortugno

Per il mondo giornalistico il 3 Maggio non è una data qualunque: si celebra la giornata mondiale della libertà di stampa. Dal 1991 l’ONU ricorda ai governi i loro doveri in quanto si rispetta l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani emessa da giornalisti africani. Dal 1997 si assegna un premio in onore di Guillermo Cano Isaza, giornalista colombiano ucciso davanti agli uffici del giornale al quale lavorava.

Prende la parola Hannah Storm, direttrice dell’International News Safety Institute e parte dell’executive team di NewsXchange. Il suo lavoro ha contribuito a focalizzarsi maggiormente sull’America Latina e Haiti.

“Oggi più che mai è importante sostenere i nostri colleghi. Lo staff di Al Jazeera è stato reso prigioniero ancora una volta, accusato di supporto al terrorismo. Un’udienza era prevista stamane.”

Egitto, Turchia, Messico e Italia sono le voci presenti alla tavola rotonda creatasi al Centro Servizi Alessi. Più testimoni per ricercare ancora una volta la possibilità di farsi sentire e ribadire il concetto che abbiamo bisogno di racconti direttamente nell’ambiente in cui le vicende accadono.

Inizia Yavuz Baydar, opinionista per il quotidiano turco Today’s Zaman e co-fondatore, nel 2013, di P24 – Platform for Independent Journalism, per il monitoraggio dei media turchi. Sicurezza, indipendenza e libertà dovrebbero essere gli archetipi delle democrazie emergenti, le quali però portano problemi gravi ove le pene per la professione giornalistica sono le detenzioni o il licenziamento.

“In un anno duecento persone sono state licenziate dal loro posto di lavoro. A me è successo ben due volte.” afferma Baydar.

Ciò che in questo periodo sta cambiando la Turchia è la sua bilancia in termini di drammaticità e soffocamento. Ci sono 14mila giornalisti e solo un 1% di sindacati. Per fortuna i social network sono riusciti a dare un’altro tipo di dominio, quello web che, anche se in parte minima,  ottiene un punto di contatto tra il paese estraniato e l’occidente. Twitter è il social più diffuso, facebook, blog e meccanismi di crowdsourcing pure; sperano in una possibile alternativo per il futuro.

In Italia le minacce sono diverse. Direttamente la morte – interviene Lirio Abbate, giornalista de L’espresso- Negli ultimi quaranta anni sono stati uccisi nove giornalisti, di cui sette in Sicilia. Lirio è stato minacciato perché scrisse su ANSA indizi sulla criminalità organizzata. Più volte sono stati sventati degli attentati. Deve vivere con la scorta per la sua sicurezza, ora. Non può essere libero.

Pericolosa non è solamente l’informazione che percepiamo. Sono le persone nonché i criminali che credono nell’informazione che vogliono ascoltare. Intimidazioni di tipo legale e citazioni civili – aggiunge Abbate. Vogliono il risarcimento per i danni accusati. Il problema sorge però se  appartieni o no a un grande editore. Certo, possono aiutarti e vincere la causa nonostante tutto, ma se lavori a un piccolo giornale locale è un grosso problema. Tutto si blocca e si autocensura per paura di affrontare.

Diego Enrico Osorno, giornalista messicano, si occupa di corruzione e narcotraffico. Ci spiega una situazione alquanto grave, in  Messico considerato il paese più pericolo al mondo. “Il 90% dei giornalisti viene ucciso, pensavo la situazione cambiasse dal 2000 con il cambio elettorale, invece stiamo solo peggiorando”. Una situazione drammatica che finora ha contato ben 89 vite decedute e numerosi scomparsi. E, non solo non si ricercano gli assassini, ma da quando è iniziata la guerra dei narcos solo un 5% è stato indagato.

Il giornalista, purtroppo, viene ormai visto come un uomo politico e nemico della società. Il popolo ha paura dei giornalisti, ci sta a larga distanza, è una guerra in sordina la nostra – aggiunge Osorno- Ha dovuto abbandonare il Messico anche lui, per la sua sicurezza.

E, a quanto sembra, questo paese non è così lontano dall’Italia. Dopotutto ai cittadini italiani non interessa perché non tocca loro. E’ un problema dei giornalisti. Alle organizzazioni di criminalità vengono date poche sentenze di condanna e il più delle volte è lasciato correre perché la giustizia fa il suo decorso a suo tempo.

Ma questo non fa cambiare il mondo. Rimaniamo fermi a guardare quando potremmo informarci e sostenere chi ci racconta delle storie complesse.

L’italia non ha abbastanza interesse per la politica estera. Cosa succede al di là del Mar Mediterraneo? E in America Latina? E nei Balcani? Non percepiamo che investire in una cultura abbondante ci rende ricchi. “Per esempio l’Egitto ha bisogno di un processo diverso e la visibilità degli esteri è poca in Italia- afferma Laura Cappon, giornalista freelance che vive al Cairo- anche se non saremmo al sicuro, ne varrebbe la pena”.

Infine, Eric Matthies,  produttore indipendente di documentari, rimane scettico in un coinvolgimento del pubblico. Ci vuole rispetto e consapevolezza per costruire questa storie. Tuttavia crede in una crescita attraverso organizzazioni di sostegno. Hanno bisogno di partecipazione in queste scommesse quotidiane i giornalisti e, fondi nazionali ulteriori, in modo tale da essere protetti.         Alcuni fondi già esistono: INSI ,per esempio, guidato dalla Storm in cui si fa formazione per le questioni di sicurezza e assistenza e, il rapporto Freedom House, il quale analizza la libertà di stampa in 195 Paesi. In Italia è aumentata la percentuale in negativo. Siamo chiamati “parzialmente liberi”. Da un’ultima analisi riceviamo un 61° posto, un lieve miglioramento rispetto gli scorsi anni.

Dall’inizio di quest’anno sono già morti 36 giornalisti nel mondo. Proviamo, dunque, a vedere la libertà di stampa come una garanzia, per tutti.

Fabia Timaco
@_fabs93