Le nuove riviste sono anche di carta

La carta è morta, viva la carta! Questo potrebbe essere il motto delle numerose iniziative editoriali che negli ultimi anni stanno prendendo vita senza lasciarsi intimorire dalla crisi dei media di cellulosa e inchiostro. Se ne è parlato nel secondo giorno di Festival, a un panel discussion intitolato “Come e perché la carta stampata non è morta”, moderato da Alberto Mucci. Sono intervenuti Cesare Alemanni, Ricarda Messner e Ibrahim Nehme, fondatori di tre  diverse riviste cartacee, rispettivamente Berlin Quarterly, Flaneur Magazine e The Outpost.

Perché avventurarsi in un settore in declino rischiando di non raggiungere mai la sostenibilità economica? Perché attraverso la re-invenzione di un medium tradizionale si può narrare la realtà intrecciando un diverso tipo di rapporto con i lettori. Long-form journalism, cura della scrittura e delle immagini, formati ibridi che a volte creano ponti con la rete: pur legate a un supporto antico, queste nuove riviste si dimostrano innovative, fresche, e per questo più vicine ai ventenni e ai trentenni. Più vere e più profonde, sia rispetto al continuo flusso di aggiornamenti online, sia rispetto alle vecchie pubblicazioni cartacee, ancorate a vecchie strutture.

Citando Tyler Brûlé, fondatore del mensile Monocle che tratta di “affari globali, business, cultura, design e altro ancora”, parliamo di riviste “che i lettori sono orgogliosi di esibire”. Qualcosa che non si può fare con le pubblicazioni digitali.

The Outpost è nata tre anni fa a Beirut, esce ogni sei mesi, e si rivolge alle giovani generazioni per dare loro voce e raccontare i cambiamenti della società mediorientale utilizzando linguaggi ad essi familiari. Nehme ha criticato l’editoria che riempie gli scaffali delle librerie di spazzatura, sottostimando l’intelligenza dei lettori e i loro interessi. Il suo progetto si distingue al contrario per la volontà di narrare in alta definizione, senza rinunciare alla complessità del reale e alla qualità della forma.

Per motivare la scelta della pubblicazione tradizionale, Nehme ha sottolineato come la carta stampata sia un modo per costruire un nome di riferimento, una voce nota da seguire, anche su altri mezzi. In particolare, The Outpost si propone di diventare in futuro anche una piattaforma digitale “attivista”, dove i giovani della regione possano condividere il loro lavoro, con una dimensione più orizzontale.

Flaneur Magazine, nata nel 2013 a Berlino, esce ogni sei mesi invece. A ogni numero parla di una città diversa, da una strada diversa. Infatti, la redazione è itinerante, nomade e cittadina come il nome della rivista dichiara, e riunisce storyteller di diversa formazione, che raccontano lo spazio urbano con un approccio artistico/letterario. Per due mesi si mescola agli abitanti di una singola via, scoprendone le storie.

Dal punto di vista formale, la missione è quella di spingere oltre le frontiere della stampa, sperimentare deformando le dimensioni delle pagine, a volte foldout, e i materiali. Flaneur inoltre ha contenuti online, gli unprintables, che in parte migrano sulla rivista; i video, ad esempio, la popolano attraverso una scelta di fotogrammi.

Anche Berlin Quarterly è stata fondata nel 2013 a Berlino, dove Alemanni stava preparando un pezzo per Studio – un’altra rivista cartacea, italiana, che racconta attualità e cultura. Per i primi quattro numeri (di cui due sono già usciti) il finanziamento è arrivato da un imprenditore irlandese, James Guerin, interessato a fare da mecenate a un progetto che ha come modello Granta e The Paris Review. L’accoglienza positiva che la rivista ha ricevuto finora è un segnale del fatto che c’è spazio in Europa per un’ibridazione tra il linguaggio delle riviste letterarie, quello visuale delle pubblicazioni di fotografia e design, e il linguaggio del giornalismo. Su Berlin Quarterly infatti si trovano fiction e poesia, ma anche e soprattutto saggi e reportage.

La scelta di Berlino, sia come sede della redazione che come città eponima della rivista, si spiega facilmente: la capitale tedesca è diventata negli ultimi anni un grande polo di attrazione per molti giovani, europei e non solo, e dunque è il luogo ideale per sviluppare un dialogo sui temi dell’integrazione europea. Un hub di idee per il vecchio continente e le regioni limitrofe. Del resto con la sua storia Berlino contiene in sé tutte le contraddizioni dell’Europa.

Bei propositi dunque. Una buona dose di coraggio e una chiara visione contraddistingono tutti questi progetti editoriali. Ma non si vive di dichiarazioni di intenti, a volte bisogna essere prosaici. Tante riviste nascono e muoiono nel giro di poco, molte non riescono a trovare un pubblico di riferimento, o ad ampliare la loro audience – per quanto alcune testate si rivolgano intenzionalmente a un ristretto numero di persone, fino ad arrivare al caso limite di MC1R, la rivista tedesca per chi ha i capelli rossi. Alberto Mucci quindi ha chiesto ai tre founder quali siano i business plan dietro le loro imprese.

Alemanni prevede che dopo la fase di startup, gli sforzi di Berlin Quarterly per essere economicamente sostenibile si indirizzeranno in primis verso strategie per aumentare il numero dei lettori e vendere il maggior numero di copie stampate. Tuttavia, considerati i costi di produzione, sarà necessario ideare alternative, stringere accordi con dei brand o istituzioni, ad esempio, per realizzare insieme progetti speciali, come fa Vice.

Flaneur Magazine finora si è sostenuto grazie alla pubblicità, anche se Messner ha precisato che la rivista ha una linea ben precisa in merito. I marchi che compaiono tra le sue pagine sono rispettosi della filosofia della testata, e accettano che le pubblicità siano relegate alla parte finale della rivista. Questa soluzione non è finalizzata a penalizzare le aziende che credono nella rivista, piuttosto a raggrupparle per rendere evidente ai lettori come anche la pubblicità sia curata su Flaneur.

Anche The Outpost finora ha fatto affidamento alla pubblicità, ma dal prossimo numero rinuncerà a questo tipo di finanziamento. L’idea è di chiedere un contributo ai lettori che credono nel potenziale della rivista, promettendo in cambio eventi e contenuti trasversali rispetto al cartaceo.

Purtroppo all’evento non è riuscito a partecipare Federico Sarica, co-fondatore e direttore di Studio. Confidando nel wifi della Sala del Dottorato, sperava di intervenire via Skype, purtroppo però non si è riusciti a stabilire una connessione. Mucci ha commentato: “Difficoltà tecniche. Scusate, siamo riviste indipendenti”.