Maledetto Storytelling

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La seconda giornata della X edizione del Festival Internazionale del Giornalismo ha visto tra i suoi eventi in programma un incontro riguardante un tema e una parola entrate di recente nel linguaggio comune, tanto della politica quanto del giornalismo: Storytelling. A intervenire Dino Amenduni di Proforma, agenzia di comunicazione di Bari, Cristian Vaccari, docente di comunicazione all’università di Londra e Bologna, Andrea Marcolongo e Mafe De Baggis, storymaker di professione.

Il titolo del panel ha associato alla parola storytelling l’aggettivo “maledetto”. Oggi molto spesso si fa un uso confuso e a volte equivoco di un termine che rischia di essere appiattito sul piano di semplice propaganda o di narrazione a effetto, senza una traduzione su un piano fattuale.

Gli ospiti del panel si sono interrogati su quanto nel nostro paese la parola storytelling sia effettivamente associata alla sua corretta definizione e quanto invece la si sovrapponga ad altre più o meno corrette, e su quale sia il rapporto esistente oggi tra giornalismo e storytelling, soprattutto in ambito politico.

Qual è il comportamento dei giornalisti verso i politici che fanno largo uso dello storytelling? I giornalisti devono e possono usare a loro volta lo storytelling come tecnica comunicativa?

Prima di inoltrarsi nel dibattere questi temi, gli ospiti, su invito di Dino Amenduni, hanno chiarito e meglio definito il concetto di storytelling. Storytelling si compone di due parole “story” e “telling”, indicando in generale l’atto di raccontare storie e, in senso più tecnico, una precisa strategia di comunicazione usata dalle aziende e dalla politica: consiste nell’ideazione e narrazione di storie capaci di inserire in una dimensione di senso azioni, fatti e progetti al fine di suscitare identificazione, coinvolgimento e persuasione nel pubblico o nel destinatario.

L’atto di narrare storie, ricorda Andrea Marcolongo, ha origini antiche: è una tecnica comunicativa che affonda le sue radici circa 2800 anni fa nell’epos, individuando nei “poemi omerici il più antico ed efficace esempio di storytelling della storia umana”. Il raccontare storie è parte integrante del nostro essere umani e, come tale, ogni giudizio di valore non dovrebbe coinvolgere lo strumento comunicativo in quanto tale, ma far riflettere sull’uso più o meno virtuoso che di esso oggi si fa tanto in economia quanto in politica.

Gli ospiti si sono trovati concordi nel constatare come oggi in Italia si parli di storytelling in modo confuso se non addirittura a “sproposito”, cercando di capirne le ragioni. Come ricordato da Vaccari, complice il ritardo storico con cui in Italia sono arrivate le moderne tecniche di comunicazione politica, una della cause di questo fraintendimento è la frequente confusione che si fa tra tecnica e mezzo. Si crede erroneamente che l’uso di una tecnica, come lo storytelling, voglia dire necessariamente collegarla a uno specifico e univoco approccio alla politica, fatto proprio da una sola parte e rifiutato dall’altra. In tal modo si rischia di demonizzare a priori un mezzo col fine di attaccare il politico di turno e le sue proposte, con la conseguenza nociva di inficiare l’azione di uno strumento dalle grandi potenzialità.

Nel nostro paese lo storytelling è una tecnica comunicativa che “ha subito a sua volta uno storytelling” che ne ha travisato il senso, polarizzandolo sul versante identificativo della propaganda. È unanime l’idea che tale errore potrebbe derivare dalla tendenza generale a porre l’accento più sul concetto di “telling” e meno su quello di “story”, dimenticandosi che prima del racconto di una storia viene l’ideazione del mondo immaginario che esso evoca. Lo storytelling è una tecnica efficace solo se la storia che si racconta si fa portatrice di realtà: una storia che non sia credibile non sarà efficace e non farà presa sul pubblico. Ne consegue che una narrazione non può prescindere dalla biografia del protagonista della storia stessa; ad esempio, il “Yes we can” di Obama funziona perché questa frase è cucita sulla vita e sull’esperienza politica di chi la pronuncia. Non esiste, come ricordato da Dino Amenduni, nessuno storyteller che, come un guru, sia miracolosamente in grado di capovolgere le sorti della campagne politiche senza che dietro quella narrazione vi sia la credibilità di chi se ne fa portavoce.

Lo storytelling così travisato, tappabuchi del vuoto della politica, corre il pericolo di non essere un mezzo capace in modo trasversale di far sentire la propria voce, ma di farsi strumento nelle mani dei forti e dei cattivi per schiacciare e prevaricare i deboli.

Non si può fare a meno di raccontare una storia. Lo storytelling risponde perciò a un bisogno comune che la politica è chiamata a raccogliere in modo credibile; una politica che voglia legittimare o trasformare l’esistente deve farlo a partire da una narrazione che può farsi conoscenza solo se quel pubblico può metterla in collegamento con altro mediante associazioni di tipo narrativo.

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Così come un politico deve porsi il problema del modo di raccontare le proprie storie per cercare di colmare la distanza tra la realtà dei fatti e la realtà percepita, così il giornalismo deve fare altrettanto.

Mafe De Baggis sottolinea come oggi il vero malato di storytelling sembri essere proprio il giornalismo, vittima di uno stato di “catacresi permanente”: un abuso linguistico costante in cui è il giornalista il primo a confondere lo storytelling con una restituzione frammentaria o parziale della storia, nell’incapacità di vedere la realtà in termini di complessità.

Il giornalismo oggi denuncia una certa sofferenza nella sua profonda vocazione di osservazione, comprensione e narrazione della realtà, attestandosi a tratti su una visione di parte della notizia. Il mondo dell’informazione deve interrogarsi rispetto alla sua tradizionale funzione sociale, deve capire come agire davanti  allo storytelling politico e cosa fare rispetto alla propria capacità di narrare storie. Vuole essere vettore di propaganda o smascherarne la fallacità, laddove esista, anche al costo di subire una battuta di arresto rispetto alla frenetica velocità di trasmissione delle notizie?

Il giornalismo nasce come racconto di storie e deve riappropriarsi di questa sua natura, per fare dello storytelling mezzo di conoscenza e credibilità comunicativa propria e altrui. Oggi, invece, la stampa nostrana sembra sempre farsi vittima dello storytelling politico, rinunciando al suo compito di lavoro critico e approfondimento costruttivo; pochissimi sono i casi di imparzialità e di capacità critica globale all’interno del panorama politico. Lo storytelling è una forma di news management della politica per imporsi e controllare il mondo dell’informazione; il buon giornalismo, quindi, deve cercare di sottrarsi da questo gioco pericoloso, destrutturando le storie per ricercarne altre più interessanti e meritevoli di essere raccontate.

Pertanto, il giornalismo potrebbe imparare a servirsi a sua volta dello storytelling come strumento utile per comunicare in un modo più efficace, chiaro, incisivo e accessibile una realtà sempre più complessa ed eterogenea che, oggi più che mai, ha bisogno di narratori capaci e intellettualmente onesti.