Margaret Sullivan racconta: «Cosa ho imparato al NYT»

Ha semplicemente mandato un curriculum e ora è la quinta public editor del New York Times. Margaret Sullivan ha incontrato la platea del Festival internazionale del giornalismo di Perugia nel keynote speech Cosa ho imparato al NYT e cosa significa per il giornalismo, moderato da Raffaella Menichini. Sullivan si occupa di gestire le domande e i commenti dei lettori e di approfondire gli argomenti sull’integrità del giornalismo. Un lavoro ben diverso dalla tradizionale scuola di giornalismo da cui proviene.

Sullivan ricorda la propria infanzia, quando scriveva nel giornalino della scuola, manifestando fin da allora la vocazione giornalistica. Da allora, naturalmente, molta strada è stata fatta: ha intervistato personaggi del calibro di Madre Teresa e Bill Clinton, si è occupata con un Il team investigativo dell’undici settembre; è stata il primo direttore donna del Buffalo News. Il New York Times? Una volta saputo da un articolo dell’abbandono del public editor della testata, il passo di Sullivan verso la redazione è semplice: «Ho fatto domanda e mi hanno preso».

Un grande cambiamento che però le ha fatto imparare molto. Innanzitutto che è una sfida continua ed un lavoro stressante. Sullivan sostiene di fare del suo meglio e di non pensare alle conseguenze ma ammette che è difficile accontentare tutti e alla fine il rischio è che si scontenti la maggior parte delle persone. Sullivan si definisce una testimone della rivoluzione digitale. Il vecchio modello di giornalismo, secondo lei, non è più salvabile ed è necessario trovare una nuova strada.

La prima è che i lettori «seri», come li definisce, sono disposti a pagare per ricevere un servizio di qualità. Il NYT conta 800mila abbonati che hanno ormai superato gli introiti della pubblicità. La seconda è che si devono seguire le regole delle nuove piattaforme di comunicazione. C’è bisogno di giovani di talento e capacità tecnica per sostenere un nuovo modello di giornalismo. Negli Stati Uniti, la redazione classica è in declino. Infine, è importante che i giornalisti mantengano integrità e trasparenza. Il pubblico deve potersi fidare. La velocità del cambiamento, ammette, a volte la fa sentire in difficoltà, ma se non si innova, c’è il rischio di chiudere. Secondo Sullivan, i collaboratori del NYT comprendono il suo ruolo. Il public editor è stato creato dieci anni fa per uno scandalo che aveva coinvolto un reporter, la dirigenza non voleva che potesse accadere nuovamente. Tutti sono molto disponibili e collaborativi con lei  anche se sicuramente ci sarà qualcuno che non è contento di averla intorno.

Le segnalazioni arrivano a Sullivan via Twitter o via e-mail e sono immediate. La public editor sostiene che dare voce ai lettori è importante. A volte dice di avere la sensazione di essere sempre in servizio e per lei è molto stancante» Capita anche che alcuni lettori abbiano una reazione eccessiva soprattutto quando si parla di politica in medio oriente. Entrambe le parti nei conflitti accusano il NYT di essere parziali. Sullivan ha spiegato che non risponde mai a lamentele in generale ma solo su singoli pezzi. Il lavoro del NYT è  sicuramente eccellente ma non perfetto  e nonostante cerchino di parlare delle questioni medio orientali in modo equilibrato, non sono esenti da errori, come sottolinea Sullivan.

Un esempio di mobilitazione dei lettori è avvenuto circa un anno fa quando il NYT ha deciso di smantellare la redazione che si occupava di ambiente e pubblicava regolarmente degli articoli su un blog dedicato. La notizia era diventata di pubblico dominio e molti hanno pensato che il giornale riducesse l’impegno verso l’ambiente. La public editor ha risposto ai lettori che la copertura delle notizie “green” sarebbe stata modificata ma non eliminata. Infatti successivamente sono stati assunti vari esperti di cambiamento climatico che hanno rimediato alla precedente chiusura della redazione.

Il public editor al termine dell’incontro ha spiegato che ama avere un contatto con il pubblico ma che per lei è stancante. Sullivan non crede neanche che si possa forzare i giornalisti a confrontarsi continuamente con i lettori. Anche se «al NYT ci sono un paio di cronisti specializzati che scrivono articoli partendono dai commenti che ricevono». Il tempo è cambiato e secondo Sullivan «più dialogo c’è, meglio è per il giornale».

Davide Casati
@davidetweet