Quattro voci per la libertà d’espressione

Nel terzo giorno dell’International Journalism Festival, il panel “La battaglia per la libertà d’espressione: testimonianze a confronto” vede l’intervento di quattro grandi ospiti internazionali: Farida Nekzad (giornalista afghana e co-fondatrice di Wakht News Agency), Khalid Albaih (vignettista sudanese), Ali Abdulemam (fondatore del blog Bahrain Online) e Anabel Hernández (giornalista messicana esperta in narcotraffico).

Gli ospiti provenienti da diverse parti del mondo sono tutti accomunati dal sacrificio sofferto per esercitare la loro libertà d’espressione e, più nello specifico, di informazione. A introdurre le loro storie è Giovanna Pancheri (SkyTg 24) che prima di passare alle testimonianze degli ospiti trasmette un videomessaggio del direttore di Charlie Hebdo, Gérard Biard, in cui egli esprime la propria sulla libertà d’espressione “Vogliamo far capire a tutti […] che esercitare un diritto non è una provocazione. Siamo stati accusati spesso di essere provocatori, perché abbiamo usato il diritto che esiste della libertà d’espressione, di satira, di caricatura, e di blasfemia. Il blasfemo per noi è importante […] perché è una forma di contestazione dell’autorità e questo in democrazia è fondamentale”.

Ed è con il tema del blasfemo che il dibattito inizia: gli ospiti sono d’accordo con la visione di Gérard Biard? Il blasfemo è una forma di contestazione democratica dell’autorità e non un’offesa?

Farida Nekzad, provenendo dall’Afghanistan, è molto sensibile al tema delle religioni: “Sarebbe bello non toccare argomenti religiosi altrimenti si creerebbero conflitti e lotte tra tutti, all’interno delle famiglie, delle società, dei paesi”. La condanna all’attacco terroristico contro Charlie Hebdo però è chiara, perché a prescindere dai limiti o meno della libertà d’espressione essa “non può essere limitata uccidendo persone”.

Uguale è la condanna dell’attacco da parte di Anabel Hernández, anche se la sua percezione dei limiti della libertà d’espressione è diversa: in Messico infatti libertà d’espressione significa riuscire o meno a raccontare la verità, nonostante i tentativi contrari dei governi. “Nel mio paese si parla di cartelli della droga, […] persone che spariscono come quei 43 studenti la cui storia conoscete senz’altro, […] sono questi i temi che per quanto mi riguarda sono importanti, quindi forse non capisco completamente il contesto del lavoro di quella rivista”.

Anche Ali Abdulemam e Khalid Albaih condannano l’attacco, ma esprimono punti di vista differenti sull’idea di libertà d’espressione. Per il primo sebbene “democrazia significhi accettare le nostre differenze e non credo che qualcuno vada ucciso per le proprie differenze”, tuttavia la libertà d’espressione va intesa come strumento di convivenza e non di attacco reciproco; il secondo invece si dissocia dal modo di lavorare dei vignettisti di Charlie Hebdo: “dobbiamo capire quello di cui si parla quando si disegnano delle vignette. Io lavoro in modo diverso”. Per Khalid la satira in Medio-Oriente è diversa perché ha la funzione di creare l’informazione che i giornali non danno, contrariamente a quanto si può dire per Charlie Hebdo.

Dopo l’ostica parentesi dei limiti “interni” della libertà d’espressione toccati con l’esperienza di Charlie Hebdo, si passa ai suoi limiti “esterni”: i governi ostili al libero sviluppo dell’informazione. E qui sono chiamate in causa le esperienze di Farida e Anabel.

Farida descrive come la fine del regime dei talebani, assolutamente contrario a qualsiasi forma di giornalismo e informazione, abbia segnato un boom di nascite di testate, accompagnato anche dalla supervisione della comunità internazionale che ha incentivato questa crescita. Dai semplici comunicati ufficiali del governo si è passati ad avere agenzie di informazione e più di 50 canali televisivi. Adesso la situazione sembra cambiata ma non è affatto calma. I giornalisti restano insicuri e l’attenzione della comunità internazionale è calata lasciando scoperto il fianco a chi cerca di diffondere notizie veritiere su quanto accade in Afghanistan. Le donne giornaliste, considerate tra l’altro meno istruite e capaci degli uomini di svolgere questo lavoro, sono quelle lasciate più vulnerabili ed indifese; lei per prima è stata vittima di minacce e intimidazioni, e due giornaliste di sua conoscenza (una sua professoressa e una sua studentessa) sono state assassinate. E i loro casi sono stati investigati con molta negligenza. Emblematico ancora dei problemi del mondo dell’informazione afghana è ciò che si sa dei lords of war: “le loro foto ci sono, ma nessun giornale vuole pubblicarle. […] Come possono allora i giornalisti parlarne?”

Lo stesso muro di silenzio è incontrato da Anabel Hernández: nel corso delle sue indagini e della sua esperienza le è risultato chiaro che il vero problema in Messico non sono i cartelli ma il governo. Senza il supporto del governo, i cartelli della droga non avrebbero conosciuto questa espansione. Quello di cui si è occupata recentemente (il cartello di Sinaloa), è stato oggetto di un libro edito anche in Italia (“La terra dei Narcos”, 2014), “dove troverete nome per nome politici, personaggi pubblici, familiari e persone che hanno intrattenuto legami con questi cartelli”. I “cattivi”, come li definisce Hernández, hanno nomi e cognomi, e sta al giornalista indicarli. Ovviamente le minacce non sono mancate, anche prima di ultimare questo lavoro. Molte delle sue fonti sono state assassinate, i suoi familiari aggrediti, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata nel 2013, quando undici uomini armati sono irrotti nel suo appartamento in cerca di alcuni documenti (che non hanno trovato): ha scoperto in seguito che si trattava di poliziotti federali. Il governo le stava dando la caccia. Ed è stato a quel punto che l’esilio è divenuta una drammatica necessità. “Se il governo messicano pensa di potermi fermare si sbaglia di grosso: questa è la mia libertà d’espressione”.

L’esilio è una condizione che accomuna la giornalista al blogger di Bahrein, al quale recentemente è stata revocata la cittadinanza. L’esperienza di Ali inizia nel 1998, quando fonda un blog in cui le persone raccontano le proprie storie e discutono del futuro del Bahrein. In questa prima fase si mantiene anonimo, ben consapevole delle capacità repressive del governo e delle sue restrizioni legislative sullo sviluppo dell’informazione in generale. Le cose sembravano essere cambiate con la salita al trono di un nuovo e giovane re, il quale aveva promesso ai suoi cittadini l’inizio di un’epoca migliore rispetto al passato. Chiaramente, così non è stato: nel 2002 le leggi sulla professione giornalistica, già restrittive, divennero ancora più asfissianti. I giornalisti potevano essere incarcerati ed essere costretti a rivelare le proprie fonti. L’escamotage che permise al blog di Ali di sopravvivere ancora un po’ era il fatto che queste leggi si applicavano alla carta stampata e non al mondo del web. Questa situazione però non è durata a lungo: prima è stato arrestato e poi rilasciato sotto la pressione della comunità internazionale. Successivamente, però è stato nuovamente catturato, torturato per sei mesi, subendo abusi sessuali fino a essere rinchiuso in una cella di isolamento sottoterra per due mesi. Infine è stato costretto a firmare una confessione che non ha mai letto. La sua storia non finisce qui, ma continua con processi fantoccio, denunce cadute nel vuoto, con le ripercussioni della Primavera Araba nel Bahrein, fino alla fuga dal paese. E a gennaio ha scoperto che la sua cittadinanza è stata revocata.

Dopo aver ascoltato la sua storia, una domanda sorge spontanea alla sala, e la Pancheri ne diviene portavoce: perché ha fatto tutto ciò? Per la stessa ragione per cui tutti facciamo dei sacrifici: il futuro, nostro e dei nostri figli. Ali ha sopportato tutto ciò perché non vuole che i propri figli vivano nello stato di polizia e nel terrore, come è accaduto a lui e ad altri prima di lui. Vuole che suo figlio si senta libero di sognare di diventare primo ministro un giorno, senza il terrore che ciò che sta dicendo gli costerà la vita. “Se non l’avessi fatto, me ne sarei vergognato”.

È per lo stesso senso del dovere che Khalid Albaih disegna le sue vignette. Esiliato con la sua famiglia dopo il cambio di governo in Sudan, Khalid ha sempre vissuto a Doha. Da ragazzo ha visto nella satira fumettistica il vero modo di informare i cittadini, unico spazio di critica in giornali sempre uguali, continuamente devoti ai leader del momento. Ed è questa differenza che l’ha catturato. L’apertura della pagina Facebook ha permesso poi la diffusione di lavori che non erano compresi dai media tradizionali. “E poi c’è stata la primavera araba”. Quando ha visto che le sue vignette venivano riprese dai giovani in protesta finalmente si è sentito “parte di qualcosa. Ho finalmente trovato persone che pensano come me e quando ho realizzato che siamo tutti nella stessa situazione […] dal giorno in cui è iniziato, ho fatto vignette ogni giorno e… ora sono qui”.

Sudan, Messico, Afghanistan, Bahrein: quattro mondi diversi, con governi e sistemi di informazione diversi, tutti accomunati dall’aver anteposto un dovere alla propria sicurezza, e all’aver trasformato quel dovere in un bisogno. Quello di parlare, scrivere, disegnare, declinare nel proprio modo di essere la necessità di fare informazione, in una spinta di idealismo che non si dovrebbe mai spegnere nel giornalismo, che è quella di essere convinti di poter cambiare le cose.