Satira e parodia on line: dal diritto di espressione al reato di diffamazione

"Foto: Francesco Ascanio Pepe"
“Foto: Francesco Ascanio Pepe”

L’articolo 21 della Costituzione Italiana sancisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

Ci sono, però, dei limiti a tale diritto? A parlarne è stato l’avv. Marcello Bergonzi Perrone, in occasione del panel svoltosi questa mattina, alle ore 10.30, nella Sala Priori dell’Hotel Brufani.

La libertà di espressione, diritto che include la libertà di opinione e di ricevere o comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche, possiede, in realtà, alcune restrizioni. Poiché comporta doveri e responsabilità, tale diritto “può essere sottoposto alle formalità, alle condizioni, restrizioni e sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie – come sancito dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo – per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

Considerati tali presupposti, ne consegue, quindi, che l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica, ne esclude la punibilità qualora esercitato correttamente. In caso contrario, l’art. 595 del Codice Penale regolamenta il reato di diffamazione, che sussiste nel momento in cui un qualsiasi soggetto “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”. Tale offesa può consistere nell’attribuzione di un fatto determinato o può essere recata a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Rientra in quest’ultima categoria il caso della diffamazione on line, attuata anche mediante i social network, vedi Facebook.

Diventa necessario, a questo punto, chiarire il concetto di reputazione, partendo da quello di onore. Mentre l’onore, secondo quanto sancito dalla legislazione, si configura come un concetto-attributo soggettivo correlato a un valore di dignità sociale uguale per tutti, la reputazione è un riflesso dell’onore, poiché rappresenta la considerazione, il credito sociale che ciascuno si è guadagnato nell’esercizio delle sue attività.

Ne consegue, quindi, che il diritto di cronaca debba rispettare tre principi fondamentali, ovvero quelli della verità oggettiva del fatto narrato, della pertinenza e della continenza, cioè della correttezza con cui i fatti vengono narrati. Questi ultimi due principi sussistono anche nel caso del diritto di critica, che invece ha limiti più ampi rispetto al diritto di cronaca, ma il cui esercizio deve essere reso esplicito onde evitare di incorrere nel reato di diffamazione. La forma della critica, infatti, “non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni. In tali ipotesi l’esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato”. Esiste, infatti, in Italia un doppio binario nel rapporto tra azione penale e azione civile.

Un discorso a sé stante va fatto sul diritto di satira (anche nel caso della vignetta), una forma artistica che mira all’ironia fino al sarcasmo e all’irrisione. Essa è incompatibile con il parametro di verità, ma si suppone che facendo satira si diffonda, comunque, una notizia e che questa debba essere vera. La satira può arrivare a offendere la reputazione, ma senza travalicare il limite della contingenza, del disprezzo e distruzione della libertà della persona.

Eppure la realtà dei fatti è che sono sempre più numerosi i siti che diffondono “bufale”, non rispettando il parametro della verità. Ci chiediamo, perciò, se tutto ciò sia lecito ed entro quali limiti. Famoso è il caso delle due ragazze italiane, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite in Siria nel 2014. Il sito Catena Umana pubblicava, precisamente il 6 ottobre 2015, un articolo dal titolo: “Vanessa e Greta ai pm di Roma: sesso con i guerriglieri, ma non siamo state violentate”. Questa falsa notizia, diventata un piccolo caso mediatico, ha fatto il giro del web facendo guadagnare al sito ed ai suoi gestori fino a 1000/2000 euro al giorno. Notizia ripresa, tra l’altro, dal senatore Maurizio Gasparri sul proprio account Facebook. Questo significa che c’è un vero e proprio business dietro la bufala on line.

Quando si pubblica una notizia è possibile che ad essa seguano una serie di commenti offensivi e diffamatori. Ai sensi della direttiva sul commercio elettronico dell’Unione Europea, i provider non sono responsabili dei contenuti immessi sui loro server, in quanto ritenuti meri soggetti passivi e neutrali. Diverso è il caso dei gestori dei siti, che devono prestare la massima attenzione per non essere ritenuti responsabili. Nel momento in cui, infatti, il portale trae profitto dalla pluralità dei commenti, deve impedire che essi prolifichino ingiustamente.

Nel 2014, l’ Unar ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social, di cui 185 su Facebook e gli altri su Twitter e YouTube. A questi se ne aggiungono altri 326 nei link che le rilanciano, per un totale di 700 episodi di intolleranza, con un trend in aumento nel 2015.

Esiste però una forma di tutela che vieta ogni forma di organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. A questo scopo sono nati degli organismi pubblici di monitoraggio della rete: dall’ OSCAD, all’ UNAR, alla Polizia Postale e delle Comunicazioni.

La libertà di espressione è quindi un diritto, ma la nostra libertà finisce laddove inizia la libertà altrui. E, come ci ricorda l’installazione di Davide Dormino in piazza IV Novembre a Perugia, ci sono uomini che hanno perso la propria libertà in nome di questo diritto. Per cui “Anything to say?”, ma sempre dopo un’accurata riflessione.