Scrivere di suicidio

Francesco Cuoccio

Leggere di un uomo che decide volontariamente di togliersi la vita provoca sempre uno scossone, ma quanto forte possa essere e con quale intensità si venga colpiti è possibile che dipenda non dall’evento in sé, bensì dalla penna che lo ha narrato. Sul rapporto fra media e suicidio hanno discusso Carlo Bartoli e Mario Tedeschini Lalli in un evento dedicato al tema, tenutosi a Palazzo Sorbello nella prima giornata del Festival.

Se e come occuparsi di suicidio sono due domande che un buon giornalista dovrebbe porsi per ogni situazione, che si tratti di un presunto colpevole, di un indagato per pedofilia, di un uomo affetto da disturbi mentali, di una semplice e comune giovane trentenne – sono solo alcuni dei numerosi esempi che il professor Bartoli ha illustrato nel corso del suo intervento. Dalle foto del luogo dell’accaduto, al nome del suicida (o tentato suicida), al modo in cui si è svolta la vicenda, ai familiari che hanno subito la perdita sino alla citazione di fonti anonime, tutto ogni volta può avere una sua rilevanza o al contrario completa irrilevanza, ma ha in ogni caso una incidenza sull’immagine che del soggetto in questione verrà alla fine fuori e sull’impressione che del caso si faranno i lettori. Questo implica una precisa responsabilità del giornalista che, a partire dal titolo, dovrebbe sempre domandarsi se e cosa e quanto riportare, e non solo perché è preferibile scrivere anche solo “cinque righe” che siano però pertinenti alla notizia (e in casi come questi non ci sarebbe piuttosto da chiedersi se si tratta davvero di una notizia da raccontare?), ma soprattutto perché, come ha affermato Tedeschini Lalli, bisogna continuamente “porsi delle domande, darsi delle risposte e pubblicamente darne conto alla cittadinanza”.

Mai stancarsi di applicare questo metodo di lavoro perché, anche se il fatto alla base della notizia di un suicidio è sempre lo stesso (la perdita della vita), i termini di partenza non lo sono mai: ognuno ha la sua storia, che la maggior parte delle volte non potrà esser raccontata nelle modalità simili a quelle di altri casi simili ma richiederà la menzione di alcuni dettagli e l’omissione di altri, che potrebbero invece essere fondamentali per altre vicende. Anche le modalità e la tipologia di linguaggio a cui si fa ricorso non sono da sottovalutare. Dalla carrellata di articoli che scorrevano una dopo l’altra lungo le slides sono emersi due atteggiamenti principali e antitetici, i quali si riflettono poi direttamente e inevitabilmente sul modo di riportare, o talvolta “romanzare”, un suicidio: uno pedagogico, l’altro spregiudicato. L’ampio divario che separa il primo dal secondo è stato il La per interrogarsi sulla possibile esistenza di una “terza via” che si ponga nel mezzo e rappresenti una valida alternativa all’autocensura da una parte, dall’altra al cinismo.

Il professore, nonché presidente ODG Toscana, Bartoli ci informa infatti che l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha condotto due importanti ricerche in merito al suicidio, in una delle quali, quella di Vienna – città in cui si registra un forte numero di suicidi – è emersa l’influenza che può avere il mezzo informativo sui suicidi, il che lascia supporre che fra le due cose esista un nesso. Non a caso fra gli 11 ‘comandamenti’ dell’OMS si annoverano l’opportunità di educare il pubblico a proposito del suicidio, l’attenzione a evitare un linguaggio sensazionalistico, come anche l’uso cauto di foto e filmati, poi l’eventualità di fornire informazioni su dove è possibile chiedere aiuto; si considera infine anche la possibilità che i giornalisti stessi vengano influenzati nel raccontare casi di suicidio.

Nel codice deontologico dei giornalisti italiani, tuttavia, non è regolamentato il comportamento da tenere nel trattare il suicidio, cosa di cui invece all’estero si tiene conto. A tal proposito il giornalista digitale Mario Tedeschini Lalli ha fatto menzione di un progetto promosso dall’ONA (Online News Association) Italia e lanciato proprio a Perugia nel 2014 dal titolo “Build Your Own Ethics Code”, che propone per l’appunto a ogni giornalista o aspirante tale di costruire un proprio codice etico su come comportarsi in 40 diverse circostanze, da pubblicare sul proprio blog, in modo che funga da punto di riferimento per tutti i pezzi sull’argomento. I criteri scelti per il questionario in merito al suicidio e la salute mentale sono proprio l’impatto sulle persone e l’impatto sulla comunità – una conferma del peso che viene dato all’interpretazione di chi legge e alle conseguenze che ne potrebbero scaturire.

Resta ancora indefinito il limite fra giusto e sbagliato, morale e immorale, ancora in dubbio se affidarsi a definite linee guida o alla valutazione del singolo (emblematico il profilo biografico su Twitter di Bartoli in cui si legge “Il dubbio come esercizio di vita. Sempre. Anzi, quasi sempre”), ma quel che è certo è che non bisogna mai dimenticare che “l’informazione è un diritto ma non un diritto cieco, deve sempre valere il principio di responsabilità, anche la conoscenza ha un limite che non viene determinato dalla legge ma dalla coscienza di chi scrive”, come ha ricordato Tedeschini Lalli citando le parole Ezio Mauro a un evento tenutosi all’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino il 17 marzo 2016.

 

https://www.youtube.com/watch?v=LSuugQDFVEM