Storytelling: penna o smartphone?

Foto via @rigatells

Come è cambiato lo storytelling? E quali sono le nuove forme di giornalismo per raccontare un Paese come il Ruanda, a vent’anni dal genocidio in cui 10.000 ruandesi furono uccisi e altri 300.000 partirono in esilio?

 Ne hanno parlato in Sala dei Notari il 2 Maggio, Mario Calabresi, direttore della Stampa, e due giornalisti che rappresentano due modi diversi di fare reportage: Giordano Cossu e Domenico Quirico. A moderare l’incontro, Marco Bardazzi, digital editor della Stampa, che ha introdotto subito il laboratorio di giornalismo digitale da poco aperto sul sito del quotidiano torinese. Si tratta di una piattaforma in cui proporre nuovi percorsi multimediali (video, grafici, test interattivi) che affiancano i racconti in forma scritta: “il nuovo storytelling ha queste caratteristiche ora”. In particolare, il Webdoc è un modo innovativo di fare documentari multimediali in cui si uniscono ai testi i video e l’infografica.  Cossu, giornalista freelance e documentarista, ha recentemente sperimentato questa forma di “narrazione non lineare” – come l’ha definita lui stesso – in un progetto crossmediale intitolato “Ruanda 20 anni dopo: Ritratti del cambiamento” che mostra la vita dei ruandesi nelle campagne. Attraverso decine di incontri, è rappresentata la precarietà con cui la maggior parte della popolazione è costretta a confrontarsi, sostenendosi esclusivamente per mezzo di un’economia agricola. I ritratti sono degli abitanti di un piccolo villaggio ed è interessante scoprire come si intrecciano le relazioni in un contesto talmente difficile.

È dunque questa la nuova frontiera del giornalismo? “Esistono vari modi di raccontare la realtà – afferma Calabresi – stiamo dimostrando che nello stesso contenitore è possibile ospitare linguaggi diversi che rispecchiano situazioni diverse.”

Quirico invece è fedele al taccuino e matita, racconta l’uomo senza l’utilizzo di uno smartphone (non sa neppure come funziona). Eppure il suo lavoro riesce a creare nei lettori un sentimento di empatia verso i protagonisti delle sue storie, come se si potesse vedere attraverso i loro occhi perché “c’è bisogno di instaurare un rapporto etico diretto con le persone che racconti.” Quirico spiega che il giornalismo è passione, condivisione, curiosità e paura. È buttarsi in un pozzo, immergersi fino in fondo (senza rischiare di affogare)  e portarsi addosso tutto ciò che si trova per poter, infine, trasformarlo in parola. È questa la metafora del giornalismo. L’importante, mette in guardia, è non fermarsi sul bordo del pozzo. La vertigine arriva poi con la resa in parola di tutto ciò che si è vissuto. Il linguaggio giornalistico è unico: ogni giorno deve essere ricostruito “perché ciò che hai scritto ieri è già morto”.

Calabresi coglie la metafora del pozzo e rilancia quella dell’entomologo di cui aveva parlato con Yoani Sanchez nella scorsa edizione del Festival Internazionale del Giornalismo. Il giornalista, infatti, deve assumere il punto di vista delle formiche e non studiarle dall’alto come farebbe un entomologo. Bisogna esserci, guardare e raccontare in maniera diversa. Con la penna o con lo smartphone, non importa.

In conclusione, coniugare le possibilità della tecnologia ai contenuti della narrazione giornalistica è possibile: lo testimonia Calabresi stesso con un reportage in cui mescola racconto video e testuale. Questo è quello che si può fare, sta ai giornalisti la scelta di correre coi tempi o procedere in direzione contraria. Ci saranno sempre storie da raccontare: il bello è capire come.

Alessia Melchiorre
(video: Roberta Covelli)