Tu la conosci l’Africa? I luoghi comuni dei media occidentali

Foto: Giada Cicognola

Un bambino col kalashnikov in spalla. Un altro denutrito e con la pancia gonfia. Queste le immagini che istintivamente associamo al continente africano. Eppure, come ricorda Antonella Palmieri, giornalista freelance che vive in Kenya, negli ultimi 10-15 anni il continente africano ha completamente cambiato volto e le città crescono a un ritmo tale da rendere il loro aspetto irriconoscibile da un mese all’altro. Di ciò non vi è alcuna traccia nei media occidentali che raccontano le novità di una società molto dinamica come quella africana in maniera quasi paternalistica e senza un vero approfondimento. Questo il tema della panel discussion “L’Africa sui media occidentali: luoghi comuni, approssimazioni, dimenticanze”, nel primo giorno dell’International Journalism Festival. «L’appiattimento dei media e del suo pubblico su una serie di stereotipi» continua Antonella Palmieri «deriva dalla loro incapacità di comprendere questi cambiamenti. Direi che c’è quasi un atteggiamento neocolonialista da parte dei media occidentali».

Come testimonia Tolu Ogunlesi, responsabile dell’Africa Occidentale per The Africa Report, tocca ai giornalisti di paesi quali la Nigeria, il Ghana e il Kenya sfidare quotidianamente questi pregiudizi. «Ci viene chiesto di interpretare e spiegare un intero continente a un mondo che non ha il tempo di cogliere tutte le sfumature e gli aspetti complicati della vita». Tuttavia, aggiunge Ogunlesi, «anche chi fruisce delle notizie deve essere meno pigro e cercare di conoscere davvero gli altri paesi».

Il linguaggio utilizzato per parlare di Africa è definito non solo dai media ma anche dall’azione delle organizzazioni per la cooperazione attive nel continente: spesso, infatti, secondo la giornalista Silvia Pochettino, per garantire l’afflusso di donazioni, chi si occupa di fundraising rimarca solo gli aspetti noti,  e in un certo senso rassicuranti per il pubblico occidentale, del continente. Secondo una ricerca del DevReporter Network, citata dalla stessa Pochettino, i termini utilizzati nel settore della cooperazione sono solitamente molto generici e si concentrano solo sull’aspetto umanitario. Ancor più grave è che nel 55% dei casi si parla genericamente di Africa senza distinzione tra paesi.

A invertire questa tendenza stanno contribuendo enormemente i social network che permettono la nascita e la diffusione di campagne contro l’appiattimento dell’informazione. Un esempio è la campagna #IAmaLiberianNotAVirus nata da una fotografa liberiana per contrastare la crescente ostilità all’estero nei confronti del suo popolo a causa della paura di contagio dell’Ebola. #147IsNotANumber, nasce invece dalla volontà di una blogger nigeriana di restituire un volto alle vittime dell’attentato di Garissa di poche settimane fa.

Ovviamente bisogna saper andare oltre lo slogan: è rimasto ben poco del #BringBackOurGirls, che un anno fa aveva mobilitato anche Michelle Obama, eppure gli episodi di violenza in Nigeria non sono diminuiti. «Sono molti di più i bambini e le donne che sono stati rapiti da Boko Haram prima e dopo quella campagna» sottolinea Ogunlesi «e in questo le semplificazioni delle notizie occidentali contribuiscono a nascondere la realtà».

Grazie anche allo sviluppo economico del Kenya e del Marocco, diventati dei veri e propri hub tecnologici, i media africani sperimentano con i social network e cercano di ottimizzare l’uso delle fonti locali. Casi di eccellenza sono l’agenzia stampa Sahara Reporters, creata da un emigrato nigeriano e diventata rapidamente molto potente, e Citizen TV una piattaforma web keniota molto sperimentale. Il panorama giornalistico non offre soltanto attualità e politica: portali quali Talking Heads Africa e Pambazuka permettono di conoscere anche l’arte e le culture africane.

Un banco di prova importante per i media locali sono state le elezioni nigeriane: i social network hanno permesso la diffusione del lavoro dei professionisti autoctoni in tutto il mondo e il superamento del monopolio delle reti tradizionali occidentali, il cui atteggiamento è definito da Ogunlesi con la metafora dell’elicottero: si arriva nel paese, si rimane il tempo di raccontare la notizia e si riparte subito dopo.

Il cambiamento è già in corso dunque. Anche la cooperazione secondo Silvia Pochettino sta cambiando il proprio linguaggio e sta includendo il sostegno alla pluralità dell’informazione come obiettivo di primaria importanza. Ma affinché vi sia una svolta definitiva e possa nascere una Al Jazeera africana è necessario, secondo Ogunlesi, «una maggiore autostima da parte dei media africani» e che sia permesso loro di crescere fino ad avere un’influenza paragonabile a quella del New York Times.