“12 anni a Guantanamo”, il diario dell’incredibile storia di Mohamedou Ould Slahi, è stato al centro di uno degli incontri nella penultima giornata del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Mohamedou Ould Slahi ha trascorso gli ultimi 15 anni della sua vita nella prigione della Baia di Guantanamo e nel suo diario, poi divenuto un libro, ha raccontato le torture, i soprusi e la lunga prigionia subite da uomo innocente, perché mai nessuna accusa formale era stata formulata a suo carico. In libertà dal 2016, oggi vive in Mauritania, suo paese d’origine e da dove si è collegato via Skype a causa del mancato permesso per entrare in Europa. A moderare l’incontro Barbara Serra, Al Jazeera English, e Larry Siems, scrittore e attivista per i diritti umani, a cui si deve la pubblicazione nel 2015 del libro-testimonianza di Mohamedou.
Mohamedou Slahi ha iniziato il racconto della sua storia con le ragioni che lo hanno portato a Guantanamo: in Mauritania era stato arrestato su richiesta degli USA perché sospettato di essere complice di Al Qaeda. Dopo 15 anni Mohamedou Ould Slahi non è stato ancora accusato formalmente di alcun crimine, ma questo non ha impedito all’intelligence statunitense di trovarlo e arrestarlo in nome della lotta al terrorismo.
Si è trattato di un grave caso di violazione dei diritti umani, che oggi Slahi racconta nel suo diario perché “sapere cosa è accaduto è l’unico modo per evitare che si verifichi di nuovo”. Non c’è livore, rabbia o astio nella parole di Mohamedou, ma la ricerca di una giustizia più giusta perché “il sistema americano non abbia più cittadini di serie A e serie B, perché non ci siano più due pesi e due misure nei confronti di chi è cittadino statunitense e chi non lo è”, dice Slahi.
Oggi Mohamedou Slahi sorride nel dire di essere molto più felice di sei mesi fa, “perché la libertà è realmente una grande cosa”, e lo è essersi riappropriato del controllo della sua vita, sfuggendo alle maglie della prigionia pressante.
Alla domanda di Barbara Serra su come sia riuscito a sopravvivere ai soprusi subiti, ha risposto: “Arriva un momento in cui la rabbia e il dolore raggiungono l’apice e a quel punto non resta che rinunciarvici e perdonare, solo così si può conoscere la vera libertà”.
“12 anni a Guantanamo” nasce durante gli anni di prigionia di Mohamedou da alcuni foglietti rubati di nascosto per scrivere, tutti sequestrati a seguito di una perquisizione nella sua cella di Guantanamo.
È a questo punto che interviene Larry Siems, che ha trasformato le 466 pagine del diario di Slahi in un libro – impresa non facile perché quelle pagine facevano parte del materiale secretato del governo americano e la battaglia per potervi aver accesso è stata lunga e tortuosa. Solo dopo sette anni il governo statunitense ha acconsentito a desecretare quelle carte e renderle pubbliche e Larry Siems ha così potuto iniziare a lavorare alla storia di Slahi. Nel 2012 ha ricevuto il manoscritto in un CD- Rom e ha stampato quelle 466 pagine, decidendo di mantenere tutte le parti censurate dal governo. Pagine piene di omissioni, che è intenzione di Slahi e Siems integrare quanto prima per recuperare le notizie oscurate dietro fogli di linee nere.
Poter pubblicare questo libro in America è stata una grande vittoria, lo è stato per Larry Siems e lo è stato per Mohamedou, il quale è venuto a conoscenza della pubblicazione del suo diario quando un giorno, accendendo la televisione a Guantanamo, ha visto un servizio dedicato al lui e alla sua storia.
In quel momento ha detto di essersi sentito come se fosse già fuori dalla prigione, perché la sua voce finalmente era all’esterno a raccontare quanto accaduto non più solo dalla prospettiva dei suoi accusatori. Slahi precisa che la sua non è la volontà di fare delle sue parole l’unica verità, ma “l’espressione del bisogno che della sua storia esistano due narrative, due differenti punti di vista”.
Far sentire la propria voce diventa oggi quanto mai importante, laddove il presidente americano Trump non ha fatto alcun segreto della sua indulgenza rispetto a quanto accaduto a Guantanamo, in contrapposizione alla precedenti dichiarazioni della presidenza Obama.
Rispettare i diritti umani è una battaglia che non può non essere combattuta, e ciò che serve a vincerla è che ognuno sia costretto a riconoscere la propria ‘accountability’, ad assumersi cioè la responsabilità delle ingiustizie perpetrate.
Slahi chiude il panel dicendo che non ha potuto scegliere la maggior parte della sua vita e questo gli ha fatto perdere molto. Tornare indietro è impossibile e rispetto alla domanda su chi si consideri ora, se un giornalista embedded, uno scrittore o un attivista, risponde di sentirsi al 100% coinvolto nella difesa dei diritti umani, perché quanto accaduto a lui non accada a nessuno in futuro, chiunque egli sia.