Durante la dodicesima edizione del Festival Internazionale del giornalismo, Antonio Pascale tiene una conferenza dal titolo “Da Pinocchio a Masterchef. Il quadro dell’agricoltura in tre foto di famiglia”.
“Sono qui per cercare di raccontare una storia molto semplice: la storia dell’agricoltura. È una classica storia in tre atti, con un tema principale ed un personaggio principale. Dovete sapere che tutte le storie in tre atti assomigliano a Cenerentola (…) Il primo atto è una dichiarazione d’intenti, il secondo atto è una riflessione su se stessa e il poi terzo atto è dove i conflitti vengono risolti. La storia dell’agricoltura assomiglia, quasi, a Cenerentola”.
È così che esordisce lo scrittore e ispettore agrario e il pubblico è subito conquistato. D’altronde Pascale è uno scrittore e la sua conferenza nasce proprio da uno spunto letterario: il personaggio di Pinocchio. Non importa se bambino o burattino, Pinocchio è “il più bello, il più vasto, il più serio racconto della fame che c’era in Italia”.
Il bambino-burattino vive nel mondo della fame, quello del 1881, quel mondo che si è ormai cristallizzato da secoli, la cui realtà, imprigionata nella staticità, non lascia spazio né al cambiamento né al miglioramento (un italiano su tre soffre per la mancanza di cibo). Il tempo è passato, ma non sembrano esserci cambiamenti. Il sogno dei bambini del libro di Collodi è il Paese del Bengodi, il paese dell’abbondanza, una realtà in cui della fame non vi è traccia. Un sogno che sembra essersi avverato oggi: viviamo nel “mondo di Masterchef”, un mondo in cui il Paese del Bengodi lo si trova tra i tavoli di un ristorante o tra gli scaffali di un supermercato. Come è potuto succedere tutto questo? Con quali benefici e costi siamo passati dalla mancanza all’abbondanza? Come affrontare i nuovi costi? È questo l’interrogativo a cui Pascale ha voluto trovare una risposta.
Primo atto. La sua riflessione comincia dall’osservazione del volto di suo nonno, classe 1899, un contadino “biologico e a kilometro-zero del paese di Pinocchio”. Questo contadino, se avesse avuto la possibilità di viaggiare nel tempo dal 1500 fino al 1900, non avrebbe notato differenze nel suo settore. Tramite il suo discorso Pascale riesce a dimostrare al pubblico quanto la produzione di cereali non si sia evoluta dal 1500 al 1900 e l’unica conclusione è che col passare degli anni non sia mutato nulla. Le cause sono svariate: dall’eccessivo impiego del maggese, ostacolo per la fertilità costante dei campi, fino ad arrivare alla mancanza d’innovazione, problema principale. Le novità nascono poi con la chimica, la meccanizzazione e il mutamento genetico e non con l’affidamento nella fede in divinità superiori o nei santi. Solo con l’arrivo del ‘900, infatti, è stata sconfitta la mostruosa fame nera con il consumo di cibo migliore, che ha agevolato, poi, la fortificazione del sistema immunitario e quindi la crescita demografica: la popolazione mondiale supera oggi sette miliardi. Questa crescita ha portato con sé l’incremento dell’aspettativa di vita e la diminuzione della mortalità per parto. Ma povertà e fame persistono, il mondo è in continuo cambiamento e la demografia anche. L’obiettivo è quello di trovare energia e cibo, ma, soprattutto, comprendere che le innovazioni novecentesche sono ormai da rinnovare perché costano e inquinano.
“Quel modello di agricoltura che fino adesso abbiamo usato, chimica, meccanica, genetica, è un po’ da rivedere. È come Cenerentola che ad un certo punto perde la sua scarpetta. L’agricoltura sta perdendo la sua scarpetta di cristallo. Perché da rivedere? Perché costa ed è anche un po’ inquinante. (…) Questi sono gli strumenti usati fino adesso, e ora non possiamo più usarli? No, non possiamo più utilizzarli (…) ne abbiamo altri perché l’innovazione sta mettendo a disposizione una cassetta piena d’attrezzi, il problema è che non conosciamo questa cassetta degli attrezzi (…) L’innovazione che è la più grande nostra speranza anche perché nasce dall’ingegno umano, viene generalmente sui giornali, sui media, maltrattata. E invece, è il caso, secondo me, di parlarne”.
Secondo atto. Dunque, che fare? Pascale ha delle proposte: parla ad esempio di revisione del biologico e verifica dei cosiddetti agro-farmaci biologici, di sfruttamento totale delle risorse investite dalle multinazionali per la produzione di agro-farmaci, d’introduzione della lotta biologica integrata ovvero dell’analisi esatta dell’esigenze delle singole piante coltivate, delle mutazioni genetiche indotte per il cambiamento e miglioramento naturale dei vegetali. Eppure, il problema principale resta uno: la paura del cambiamento, l’eccessivo attaccamento al passato, visto come unico valore da conservare e mantenere immutato anche se, ormai, per certi versi, si rivela obsoleto.
Terzo atto. C’è bisogno di smontare le convinzioni per poter dare il via al vero cambiamento.
“È importante sia perché le persone devono uscire dalla povertà, sia perché abbiamo bisogno di un’agricoltura migliore, sia perché le multinazionali devono essere messe in condizione di produrre senza panico, sia perché dobbiamo rispettare la memoria di mio nonno. Perché se mio nonno si svegliasse, tornasse in vita, (…) sono sicuro che s’iscriverebbe a scuola, sono sicuro, vorrebbe imparare a parlare, farebbe le cose che fanno tutti. Sarebbe brutto se appena imparasse a leggere gli capitasse un articolo sui bei tempi andati, quando l’agricoltura era più sana e i prodotti erano migliori. E mio nonno direbbe sicuramente ‘Tutto qua? Dopo quarant’anni stanno al punto di partenza?’ Inventiamoci qualche altra cosa. Io invito voi tutti a inventarci qualche altra cosa”.
Conclude così Pascale, con un sorriso incoraggiante e la speranza in un prossimo cambiamento. Ora sta a noi decidere se portare o meno a compimento questo terzo atto.