Assassinati perché cercavano la verità: intervista a Lirio Abbate

DSC_2148_595Assassinati perché cercavano la verità. Uccisi perché traditi dalla verità delle loro parole. È questo che accomuna i dieci giornalisti italiani ricordati da Lirio Abbate, de L’Espresso e che da sette anni vive sotto scorta, nel suo monologo “Morti di mafia: la storia dei giornalisti uccisi dalle criminalità organizzate”.

Scritto assieme al regista Marco Tullio Giordana, il testo di Abbate racconta di storie troppo spesso dimenticate, di uomini che hanno svolto il proprio lavoro in nome della verità dei fatti e i cui nomi risuonano dinanzi alla platea in ascolto. “Perché è necessario fare memoria“, come sottolinea lo stesso Abbate attraverso le parole di Sciascia: “A futura memoria, se la memoria ha un futuro”.

Giuseppe Fava, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Beppe Alfano, Mario Francese e suo figlio Giuseppe, morto suicida dopo aver lottato per cercare gli assassini di suo padre, “perché la mafia – ricorda commosso Lirio Abbate – uccide anche così“. E poi ancora Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, fino a Peppino Impastato, simbolo di una rivoluzione sociale antimafia.

Tutti uomini che hanno denunciato i complotti tra mafia e politica, che hanno denunciato lo strapotere mafioso, rappresentando una spina nel fianco per il loro operato illecito. “Storie normali di uomini normali con la vocazione al giornalismo e non all’eroismo“. Uccisi per ciò che hanno scritto, affinché la loro morte fungesse da monito per gli altri.

Una storia che non si ferma e che arriva fino al presente, fino allo stesso Abbate, autore della denuncia del complotto di “Mafia Capitale” nel libro “I re di Roma”.

Secondo voi un giornalista cosa dovrebbe fare? Nascondersi? Ma a noi il silenzio non piace!”