
L’intervento di David Dankley Gyimah al Festival ha costituito un momento di discussione e confronto sul videogiornalismo e sulle sue forme di narrazione. Nessuno meglio di lui, infatti, può dire quando e come sia nato il videogiornalismo anglosassone. A Londra, nel novembre 1994, l’emittente Channel One si avvalse di 30 giovani, tra cui lo stesso Gyimah, per produrre la prima London TV Station 24 ore su 24.
Attualmente professore all’Università di Westminster, D.D. Gyimah è presente sulla scena giornalistica dal 1987. Ha lavorato per ABC News, Channel 4 News, BBC World Service. Ha viaggiato molto in Europa e nel mondo. Sul sito di sua creazione, Viewmagazine.tv, si definisce una persona pragmatica, in cerca di nuove soluzioni e sperimentazioni nelle diverse aree dei media e della comunicazione digitale. Il sito gli è valso, qualche anno fa, un premio di tutto rispetto, il Knight-Batten Award, per la capacità di produrre nuove forme di narrazione con l’utilizzo di video e strumenti del web. Era il 2005, un anno che anche lo speaker definisce di rivoluzione per il video: l’anno in cui nasceva Youtube, andava diffondendosi il citizen journalism e usciva nelle sale il film ‘Crash’, del regista Paul Haggis.
È lecito chiedersi cosa c’entri il film e, soprattutto se non lo si conosce, perché sia pertinente al discorso. Il film è un intreccio di storie, di narrazione, un muoversi nel tempo e nello spazio attraverso dei flashback. Leggendo tra le righe dell’intervento di Gyimah, è stato una vera e propria sfida per il pubblico. Lo stesso pubblico che è presente nella sua ricerca per comprendere i possibili nuovi linguaggi formali dell’informazione.
Il video è una scatola, al suo interno vi è l’informazione. Le scatole possono essere diverse, così come diversi saranno i modi di costruire una storia con quell’ informazione. Due esempi molto chiari sono stati presentati per confrontare il vecchio stile che esiste ormai da più di 50 anni e il nuovo. Il soggetto della narrazione è il terremoto di Beichuan del 2008 in Cina. La scatola old style è rappresentata dal servizio di Mellissa Chan per Al Jazeera. Quella d’impatto, per il modo di raccontare la tragedia, porta la firma del videogiornalista Travis Fox per il Washington Post.
Perché il secondo è più efficace? «Perché – ha spiegato Gyimah – si avvicina a ciò che viene chiamato cinema. Nonostante Hollywood negli anni ‘30 ne abbia ridefinito i contorni, attraverso la nascita dei generi tra cui il western, la parola cinema nasce con il significato di individuare una trama o un intreccio in un contesto o in uno scenario specifico, anziché inventarlo».
«Se da un lato – prosegue il professore all’Università di Westminster – il vecchio stile di giornalismo televisivo dice “questa è la storia”, dall’ altro il vero cinema scorge un significato all’ interno di ciò che si sta guardando”. Un po’ come quello che succede nel film sopracitato, ‘Crash’. Oggi a influenzare il modo di raccontare le informazioni, fornendo nuove opportunità stilistiche, sono Google, i social media, il data journalism, le app, gli smartphone e i tablet, i codici del web. Mai come prima, adesso potrebbe essere il momento per svecchiare il mondo del videogiornalismo». In un grafico proiettato alle sue spalle per la platea che lo ascolta e arriva fin fuori alla sala, Gyimah pone il videogiornalismo sulla linea di confine fra televisione e documentario.
Esempio della capacità di innovazione è il racconto della Siria presentato dall’ altro speaker presente in sala, Marwan Maalouf, co-fondatore di Menapolis. Avvocato specializzato nei diritti umani, Maalouf è stato molto chiaro riguardo alla differenza tra il cinema journalism e il conosciuto stile televisivo: il primo non è l’alternativa al secondo, è una delle tante alternative.
Un esempio su tutti è l’esperienza di False Alarm: «Un modo efficace per raccontare la Siria – ha affermato Maalouf – è stato quello di lavorare con videogiornalisti. L’obiettivo del documentario è stato quello di cercare i volti celati dalla guerra. Raccontare il conflitto collegando storie è stato il nostro modo di assumere una prospettiva. Tuttavia, parte del potere comunicativo è nato dal fatto che spesso i personaggi sono stati gli stessi videogiornalisti che si sono chiesti: “Dove ci troviamo rispetto al conflitto?”»
La realtà è rotta. La parola passa nuovamente a Gyiam che conclude con l’immagine del libro ‘Reality is broken. Why games make us better and how they can change the world’, dell’autrice e game designer Jane McGonigal. La realtà sarà anche rotta ma gli strumenti e le opportunità per migliorare l’informazione ci sono tutti.
Luisa Chiaese @LuisaChiaese