Paul Conroy e Nicole Tung , entrambi fotogiornalisti che si occupano di zone in conflitto, hanno portato la loro testimonianza dal campo al Festival Internazionale del giornalismo, presso la Sala dei Notari a Perugia. Un incontro che fin da subito viene presentato con ammirazione da Marta Serafini che dichiara la loro importanza nell’ambiente giornalistico affermando che “dobbiamo ringraziarli perché loro sono i nostri occhi sul campo, e ci raccontano cosa succede da dentro”.
L’importanza di parlare della guerra sul campo
Paul Conroy si espone per primo, citando Marie Colvin, giornalista americana e sua compagna di lavoro per diversi anni, morta in Siria nel 2012. Con lei “era come pelare una cipolla, vedi il primo strato e poi vai un passo più avanti e così via e con Marie, la profondità e i dettagli che cercava prima di scrivere ogni singola parola” erano incredibili, era il suo modo di testimoniare, “lei avrebbe continuato a pelare quella cipolla fino a che non saremmo arrivati il più vicino possibile alla verità, di qualsiasi calibro questa fosse” .
In un’epoca in cui tutto accade velocemente l’approfondimento è ciò che manca. Per questo è ancora importante andare sul campo e documentare dettagliatamente quello che sta succedendo, secondo il fotografo. “Una volta eravamo in Siria – racconta Conroy – e ci diedero un video in cui c’era una stanza piena di cadaveri decapitati e ci dissero ‘questo sta accadendo in Siria’. Noi non lo pubblicammo, ma quando uscimmo dal paese ci rendemmo conto che era un video di un cartello della droga messicano. Sarebbe stato molto facile pubblicare quel video online attorno al quale si sarebbe creato un uragano, ma non sarebbe stato reale!”. Conroy conclude affermando che il lavoro dei giornalisti al giorno d’oggi è veramente importante per essere coinvolti, andare fino in fondo e togliere uno strato dopo l’altro dalla verità, anche se questo spesso porta a verità oscure e pericolose.
Nicole Tung concorda con Conroy, “Io credo che non si possa sostituire il fatto di essere presenti in un luogo ed essere di fronte a queste situazioni, come ha detto Paul, per testimoniare ma anche per documentare. Non importa quanto sembrano futili i documenti che raccogli, queste situazioni comunque stanno avvenendo e un giorno potremmo guardare indietro e dire ‘ok, noi sapevamo cosa stava succedendo’ ”. La fotogiornalista continua esprimendo la sua fiducia nella missione che sente di aver preso in carico, la missione di documentare, di elevare la voce di ogni individuo.
Dare un volto alle vittime della guerra, è davvero possibile?
Secondo Nicole Tung tutte le persone hanno voce, “Come fotogiornalisti il nostro lavoro è quello di costruire ponti”, e questo, secondo lei, è necessario farlo attraverso la creazione di empatia e comprensione tra i soggetti e coloro che guardano le foto. È necessario quindi, per un fotoreporter, creare delle connessioni. Conroy cita nuovamente la sua compagna Colvin, dichiarando come lei fosse capace di umanizzare la guerra, collegando la sofferenza di cui lei scriveva e che lui fotografava. Il lavoro di un fotogiornalista è molto importante, poiché quando ci si trova in guerra è “necessario rendere comprensibile e digeribile la tragedia a qualcuno che siede con i suoi corn flakes e il suo caffè”, magari dall’altra parte del mondo.
A riguardo, Marta Serafini interviene più avanti, chiedendo ai due fotogiornalisti qual è la situazione più strana che sia capitata loro in una zona di guerra e quale sia la persona più importante che abbiano incontrato, in modo da far capire al pubblico che la guerra non è solo un evento militare, ma riguarda le persone. “Onestamente non penso che ci sia stata una persona in particolare che mi ha aiutata a non mollare” – risponde Nicole Tung – “ma penso che le persone più coraggiose che ho incontrato e che mi hanno dato una causa per non mollare la speranza, sono state le persone ordinarie che vivono in un conflitto”.
Conroy, con un’ironia che sembra quasi surreale per la situazione di cui parla, racconta che la cosa più strana che gli è successa è stata nel 2003, quando si trovava a nord-est della Siria e cercava di andare in Iraq attraversando il fiume Tigri, ma la polizia siriana non concedeva i permessi ai giornalisti. Il reporter racconta allora che decise di costruirsi da solo una barca con alcuni pneumatici per attraversare il fiume e di conseguenza il confine, ma la notte prescelta per l’attraversata i militari cominciarono a sparare e lo interrogarono. Dopo questa folle impresa gli altri giornalisti lo esclusero dalla loro cerchia, “ero per i fatti miei nell’hotel senza amici e si aprì porta e c’era Marie Colvin. Non l’avevo mai incontrata, e chiese ‘chi e dov’è l’uomo della barca?’ io risposi che ero io e lei rispose ‘Hey, uomo della barca, mi piace il tuo stile, posso offrirti un whiskey?’ e questo è come ho incontrato Marie”, un momento che ricorda ancora come uno dei momenti più piacevoli che ha vissuto in una zona di guerra.
Disturbi da stress post traumatico
Essere un giornalista che lavora in zone di conflitto non è emotivamente facile, spesso quando termina il loro incarico vengono seguiti da degli specialisti che li aiutano a processare tutto ciò che hanno vissuto. Nicole Tung ritiene che questa sia una questione molto grave, i giornalisti stanno migliorando nel riconoscere i sintomi psico-fisici che questo disturbo comporta, ma avere qualcuno che possa aiutarli a farlo è molto importante. “Credo che la sfida, soprattutto per i giornalisti freelance, sia sapere dove poter trovare questo aiuto e saper riconoscere i disturbi”. Paul Conroy aggiunge che secondo lui questo tipo di disturbo non si percepisce su se stessi, non è facile accorgersene quando si torna a casa perché il lavoro da fare è molto, ma che il trauma di cui si può parlare avviene piuttosto nel momento in cui si sta lasciando la zona di conflitto, pensando che “tutte le persone con cui hai passato questo tempo incredibile e intenso resteranno lì, mentre tu hai il biglietto d’oro per uscirne, tu sei sull’aereo”. Si tratta di “una transizione, e nelle transizioni accadono cose strane”.
Proteggere i giornalisti: una sfida impossibile?
La situazione per i giornalisti è molto difficile, il conflitto comporta un rischio e spesso sono attaccati direttamente dal governo del paese che sta vivendo il conflitto e dove il giornalista sta andando a lavorare. Il diritto internazionale cerca di proteggere chi fa questo lavoro attraverso delle convenzioni, ma spesso queste non vengono rispettate. Uno dei più grandi problemi per proteggere i giornalisti è l’impunità per i fautori del delitto, poiché ci sono pochissimi casi in cui realmente si trovano le prove per poter condannare qualcuno o trovare la persona o le persone che hanno commesso l’omicidio.
Nel caso dei rapimenti la questione si fa ancora più complicata, poiché è una posizione molto difficile soprattutto per i governi degli stati d’origine dei giornalisti che vengono rapiti, non si è ancora riusciti a trovare un equilibrio. Su questo punto Nicole Tung esprime il proprio parere, “penso che ci sia un modo per trovare un equilibrio”, ci sono dei paesi che decidono di pagare il riscatto, e altri no, ma in entrambi i casi la situazione deve essere valutata con precisione, altrimenti rischia di diventare pericoloso per i giornalisti. Se si sa che uno stato paga tutti i riscatti, allora i reporter di quella nazionalità avranno più probabilità di essere rapiti. Non si può dare una risposta generale, bisogna valutare caso per caso. Salvare i cittadini è un trionfo, ma “penso che non bisogna né chiudere la porta, né aprirla troppo”.
La sfida per la prossima generazione di fotoreporter
Con un velato sarcasmo entrambi i fotogiornalisti rispondono che la più grande sfida per le generazioni future che vorranno intraprendere questa carriera è riuscire a pagarsi l’affitto, o comunque riuscire a vivere di questo lavoro. Inoltre Nicole Tung aggiunge che una delle grandi sfide di questo lavoro è quello di riuscire a scuotere gli animi delle persone, togliendoli dall’apatia, attraverso delle storie che stanno a cuore a chi le racconta e attraverso l’empatia che si può trasmettere attraverso queste storie, allora si può sperare che qualcun altro si interessi alla stessa storia. È necessario credere nel proprio lavoro ed esprimere passione, solo così sarà possibile trasmettere qualcosa alle altre persone, anche a chi si trova dall’altra parte del mondo rispetto alla zona in cui il giornalista si trova.