CIE: l’ultima frontiera europea?

DIEGO FIGONE

Foto: Diego Figone

Non sappiamo (o fingiamo di non sapere) cosa succeda all’ interno dei Centri di Identificazione e di Espulsione perché è quasi impossibile accedervi e ancora più difficile raccoglierne documentazione, ma qualcuno ce l’ha fatta e ha deciso di mostrare al nostro Paese quello che ignora (o, ancora, finge di ignorare). E’ il caso del documentario ‘EU 013 L’ultima frontiera’, di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese, proiettato all’International Journalism Festival il 30 aprile in presenza degli autori, in collaborazione con Amnesty International Italia. Il documentario è un viaggio all’ interno di alcuni dei CIE più tristemente conosciuti d’Italia: il centro di Ponte Galeria (Roma), quello di Bari e quello di Milo (Trapani). Il punto fondamentale intorno a cui ruota la riflessione del documentario, basato sull’autonarrazione dei trattenuti in questi centri, è però il fatto che buona parte dei clandestini che vengono rinchiusi in quelli che gli autori definiscono «veri e propri lager» sono molto spesso persone che vivono nel nostro paese da molti anni e per molto tempo hanno pagato tasse e contributi allo Stato. Esemplare il caso di un ragazzo tunisino incontrato nel CIE di Bari che, dopo 28 anni trascorsi in Italia, dice di essere stato rimpatriato in Tunisia poco tempo prima  dell’intervista. Lui che in Tunisia non c’è mai stato e dove non ha più legami familiari, dal momento che tutti i suoi parenti ormai vivono in Europa.

Nel corso dei documentario alcuni trattenuti si raccontano e, attraverso le loro testimonianze, scopriamo molti dettagli sul meccanismo di queste istituzioni. Prima di tutto, bisogna ricordare che i CIE non sono carceri, ma “centri di accoglienza” in cui i clandestini vengono trattenuti per una detenzione amministrativa e non penale. La detenzione, infatti, viene stabilita da un questore senza alcun tipo di processo in seguito all’ accertamento della clandestinità di queste persone,elemento che di per sé non rappresenta reato. Questo è il motivo per cui le forze dell’ordine ricordano spesso ai trattenuti del CIE di Bari che cercare di scappare non comporta una violazione della legge, eppure durante tutto il lungometraggio assistiamo a diversi tentativi di fuga sedati dai vari servizi d’ordine dei centri. Così come sono sempre le forze dell’ordine a gestire crisi di panico e attacchi d’ansia, di cui sorge spontaneo chiedersi che tipo di esperienza e competenza abbiano.

Il trattenimento, a cui in teoria dovrebbe seguire l’espulsione, può avere una durata massima di un anno e mezzo. Quello che emerge è un quadro ancora più complesso che porta a riflettere sul concetto di costruzione del nemico.  Questa edificazione parte prima di tutto dall’ ambiente in cui queste persone vengono trattenute: così simile a un carcere da suggerire la pericolosità sociale degli individui che si trovano al suo interno. Individui che in realtà pericolosi non sono, proprio perché, come già detto, non hanno commesso alcun tipo di reato. È lo stesso ambiente, infatti, a incrementare tensioni e dissidi interni che spesso sfociano in violenza. Basta pensare ai casi in cui i clandestini che possiedono una maggiore padronanza della lingua italiana e una spiccata propensione alla leadership vengono scelti come mediatori fra le istituzioni e gli altri trattenuti (compito che dovrebbe essere affidato a persone esterne e stipendiate), favorendo una gerarchizzazione dei rapporti fra detenuti.

Una riflessione va fatta anche su quello che l’autrice Raffaella Cosentino definisce «camuffamento linguistico», ovvero sull’ utilizzo di termini che tendono a sminuire la drammaticità di questi luoghi e delle condizioni di vita (soprattutto in termini di diritti umani violati) all’ interno, e allo stesso tempo a suggerirne la necessità per la sicurezza pubblica. Questi centri vengono chiamati “centri di accoglienza” o “centri di identificazione ed espulsione”, quando i clandestini qui non vengono né accolti, né identificati e tanto meno espulsi. Di loro si dice che siano “trattenuti”, non detenuti, quasi a voler suggerire la provvisorietà di questa situazione, che però spesso si prolunga per anni.

La detenzione amministrativa sopravvive in Italia dal 1998 come diretta conseguenza dell’abbattimento delle frontiere europee in seguito agli accordi di Schengen. «Lo scorso governo – ci ricordano gli autori – stava legiferando a favore della chiusura di questi centri per rispondere alle numerose rivolte di trattenuti verificatesi negli ultimi anni, ma ad oggi il processo in questo senso sembra essersi fermato. Ogni anno il governo spende 55 milioni per gestire gli 8 mila clandestini che vengono rinchiusi in questi centri. Viene da chiedersi se questo sia il prezzo della globalizzazione, se libertà, democrazia e diritti siano diventate soltanto “parole, parole, parole..”, come canta in un perfetto italiano un detenuto del CIE di Milo.

Giulia Cuter (@cutergi)