Clickbaiting o approfondimento giornalistico? La rivoluzione delle slow news

Nell’epoca della rivoluzione digitale, della corsa all’ultimo tweet e del clickbait, c’è chi immagina un giornalismo diverso, nel quale la cura dei contenuti vince la guerra contro la velocità di informazione.

“Quante persone hanno letto il giornale stamattina?” – chiede ironico Peter Laufer, SOJG dell’università dell’ Oregon, dinanzi a un uditorio che resta quasi ammutolito. È da qui che parte la riflessione sulle slow news, un progetto che mira a rallentare il flusso incessante di informazioni sul web, al fine di porre il lettore al centro di esso e la sua capacità critica.

“La rivoluzione lenta” è il sottotitolo del panel svoltosi al Centro Servizi “G.Alessi”, che ha messo a confronto realtà che intendono promuovere un giornalismo diverso, capace di fornire contenuti, consapevoli dell’impatto che essi possono avere sulla realtà circostante.

Troppo spesso i giornalisti sono valutati in base al numero di click che il loro articolo ha ottenuto, così come, ancora più spesso, vi è l’utilizzo di titoli a effetto che hanno il semplice scopo di attirare l’attenzione mediatica del lettore. “È per questo che, come società – spiega Laufer – non abbiamo quel livello di informazione di cui avremmo diritto e ciò non sarà possibile se continuiamo a pensare che tutto questo ‘rumore’ sia utile”.
In quanto lettori, siamo bombardati da un flusso costante di informazioni che non siamo in grado di filtrare.

Come spiega Rob Orchard, cofondatore della Slow Journalism Company, “Siamo in grado di selezionare un’informazione veramente importante, solo dopo che il polverone mediatico è svanito. Parlare di una vicenda dopo tre mesi è diverso. Spesso, infatti, la gente, se intervistata mentre un fatto sta accadendo, non sa spiegare precisamente cosa stia accadendo”. Orchard ha a tal proposito fondato un magazine – il Delay Gratification – che pubblica notizie a distanza di tempo, nell’ottica che queste, solo dopo essersi sedimentate nella mente delle persone, possano essere soggette a un’analisi finale e completa.

È necessario dare alle storie una struttura narrativa, prendersi il tempo di descriverne gli attori, affinché il lettore si cali in esse sentendole più sue.
“Rallentare e produrre storie con una struttura sarebbe positivo a livello economico, soprattutto di economia del tempo: ne riusciremmo tutti più arricchiti” – ha sottolineato Antonio Talia, giornalista di Informant, una startup di editoria digitale, ma anche blog d’informazione, sul rapporto tra giornalismo narrativo e long-form journalism, che si occupa di reportage su tematiche di attualità, esteri e tecnologie per raccontarne il cambiamento, rinnovando il modo di fare giornalismo: sfruttando al meglio il tempo del lettore fornendogli contenuti di qualità.
L’idea, quindi, è quella di pubblicare storie più lunghe di un articolo di giornale, non fiction, ma non abbastanza lunghe per essere un libro. Una sorta di saggio breve o un’inchiesta lunga, venduta a prezzi contenuti.

Affinché questa “rivoluzione lenta” avvenga, è necessario che la spinta arrivi innanzitutto dal lettore, mostrandosi disposto a pagare per avere notizie di qualità che dedichino più tempo all’analisi. Si tratta certamente di un pubblico di nicchia, ma la somma di più pubblici alla ricerca di qualità potrebbe produrre un mercato capace di autosostenersi.
L’obiettivo è quello di una dieta informativa che però serva a ridare valore al proprio tempo: quello dedicato alla stesura e alla ricerca, da parte del giornalista e di quello dedicato alla lettura, da parte del “consumatore”.

È un po’ una sorta di ritorno al racconto giornalistico americano degli anni ’60, ma, come ha evidenziato Peter Laufer: ” Se ti vuoi nutrire di cibo di qualità, molto probabilmente tornerai a ciò che facevano i nostri genitori”.

Come “Essere i gabbiani che seguono il camion rimorchio” dice Rob Orchard, ma questo è il prezzo che si deve essere disposti a pagare per ritornare a essere protagonisti del flusso informativo.