Come monitorare gli attacchi dei droni


I droni sono un’arma impiegata nei conflitti in tempi relativamente recenti. Cosa sono però gli attacchi con i droni e come è possibile creare dei limiti al loro uso e fissare precise responsabilità da parte dei Governi? A questa domanda ha tentato di dare risposta il panel ‘Attacchi con i droni: come riconoscerli, come monitorarli‘, attraverso gli interventi di Laura Silvia Battaglia (giornalista freelance), Philip Di Salvo (European Journalism Observatory), Jessica Dorsey (project officer del dipartimento di disarmo umanitario di PAX), Jack Serle (Bureau of Investigative Journalism).

Jessica Dorsey spiega che la missione a cui puntano  le organizzazioni per il disarmo e di ricerca dei droni armati è quella di aumentare la trasparenza e responsabilità attraverso la legge. La sua esperienza è che i governi non sono collaborativi su dove avvengono gli attacchi, né si sono attivati in modo soddisfacente per scrivere leggi chiare. La mancanza di chiarezza legislativa mina il principio di responsabilità perchè se non si riesce ad avere il quadro completo degli attacchi, è difficile intervenire e per le vittime è difficoltoso chiedere giustizia. Pertanto, spesso la collaborazione con i giornalisti investigativi e gli informatori diventa vitale per conoscere i veri numeri delle morti causate dai droni e le località colpite. Purtroppo, sottolinea Dorsey, “questo è  sintomo di un sistema in cortocircuito perchè se i Governi collaborassero come loro dovere, non ci sarebbe bisogno di ricorrere a queste figure, senza contare che informatori e giornalisti si mettono in pericolo per fornire tali informazioni”. “Siamo in diritto di sapere ora e luogo degli attacchi, quanti morti e i loro nomi. Abbiamo un preciso diritto all’informazione”, continua Dorsey. Da parte loro, i governi si trincerano dietro il pregiudizio alla sicurezza nazionale come giustificazione per non rilasciare informazioni.

Purtroppo, a detta di Dorsey, tale giustificazione è usata troppo spesso come scusa, mentre in realtà le circostanze per far valere il pregiudizio della sicurezza nazionale sono limitate. In particolare, i principi di Tshwane sulla sicurezza nazionale e il diritto all’informazione del 2013 chiariscono che nessuna restrizione al diritto di informazione può essere imposta sulla base della sicurezza nazionale a meno che il governo dimostri che la restrizione è prevista dalla legge; è necessaria in una società democratica; serve per proteggere un interesse legittimo alla sicurezza nazionale  (principio 4, paragrafo 1). Inoltre, la legge deve provvedere adeguate salvaguardie contro l’abuso, includendo uno scrutinio rapido, completo, accessibile ed effettivo sulla validità della restrizione da parte di una autorità indipendente e una piena revisione da parte di corti giudiziarie (principio 4, paragrafo 2). “La sicurezza nazionale, pertanto, non può essere una coperta da tirare all’occasione e il pubblico ha il diritto di sapere, così come le vittime hanno diritto alla giustizia”, dice Dorsey.

Non è però solo un problema americano. Non mancano critiche per la complicità europea sugli attacchi dei droni. I paesi europei, racconta Dorsey, si stanno ispirando in materia di standard di segretezza al modello USA, paese con il più grande uso di droni, ma tale standard non è sufficiente. “Inoltre, Germania con la base di Ramstein, Italia dalla base di Sigonella e i Paesi Bassi pare che stiano assistendo gli attacchi americani con i droni, sia con le loro basi o con la condivisione di informazioni strategiche, come nel caso di un attacco di sterminio in Somalia”. Ma cosa si può fare? Al momento il Parlamento europeo ha chiesto la produzione di un report nel 2017, dopo aver chiesto inutilmente sin dal 2014 una risoluzione per una cornice legislativa comune. Questo report, che sarà pubblicato entro un mese, si concentrerà sulla prevenzione di attacchi illegali, ma anche sulla trasparenza e il controllo della proliferazione, così come del chiarimento della cornice legislativa. Dopo la pubblicazione, questo report sarà promosso dall’European Forum on Armed Drones (EFAD, un network di organizzazioni per i diritti umani) presso diversi governi europei per spingerli ad adottare misure chiare e vincolanti.

Laura Silvia Battaglia, giornalista che vive tra Italia e Yemen, fa notare come gli attacchi dei droni producono multiple conseguenze: ad esempio, anche nei casi in cui l’attacco uccide solo le persone obiettivo senza morti collaterali, gli adulti e i bambini che assistono all’attacco rimangono traumatizzati, senza contare il dolore per la perdita dei famigliari. Tutto ciò può scatenare una reazione a catena, come attacchi esplosivi effettuati da kamikaze e il peggioramento della situazione politica nei paesi colpiti. Battaglia mostra un video sugli attacchi di droni in Yemen, in particolare a Sanaa: 206 attacchi dal 2002 al 2016, 866 uccisioni, di cui tra i 160 e i 197 civili e 46-48 bambini. Nel video, un informatore racconta come persino feste di matrimonio sono state oggetto di attacco. Di conseguenza i civili, in particolari i gruppi tribali, spiega Battaglia, perdono fiducia nel governo e vedono in al-Qaida un’alternativa attraente. A volte però, se ritengono che nemmeno Al-Qaida può proteggerli, si rivolgono all’ISIS. Ciò contribuisce al problema dello Stato Islamico in Yemen e al risentimento contro il presente governo yemenita e contro gli Stati Uniti.

Jack Serle spiega il ruolo del Bureau of Investigative Journalism nel monitoraggio di questi attacchi. Ad esempio, la difficoltà è stata replicare i report ufficiali dell’esercito americano perché mancano informazioni sostanziali. “Quindi abbiamo iniziato a raccogliere notizie di attacchi anche dai media e così abbiamo sviluppato un dataset”. Serle continua: “Il lavoro che voi giornalisti fate sul campo per raccogliere informazioni è meraviglioso, specialmente in Pakistan, Yemen, Somalia, Afghanistan, dove è notoriamente pericoloso lavorare come giornalista. Ora il dataset è disponibile gratuitamente sul nostro sito”. Le conseguenze di questi attacchi per le popolazioni sono che, non potendo attaccare gli USA, rivolgono la loro rabbia sulle forze armate locali, con proteste, bloccando le strade o attacchi mortali.

Per quanto riguarda al ruolo degli informatori o whistleblower, il ricercatore Philip di Salvo racconta che dal momento che i numeri che non corrispondono, i whistleblower hanno cercato di chiudere il gap. “Ad esempio, nei dati della Casa Bianca nel 2016 mancava una chiara definizione di ‘combattenti’ e ‘vittime’ come persone uccise dai droni. Inoltre, l’amministrazione Obama ha affermato che dal 2009  i civili uccisi sono stati 64, mentre secondo Bureau of Investigative Journalist sono stati almeno 325”. Di Salvo si aspetta che  l’amministrazione Trump non migliorerà quanto a trasparenza.  Ma chi sono i whistleblower? Come spiega di Salvo, possono essere definiti come membri di organizzazioni che rivelano pratiche immorali, illegali o illegittime sotto il controllo dei loro datori di lavoro a persone o organizzazioni che possono agire. Il primo fu Edward Snowden.  Gli informatori hanno raccontato la cultura dei drone strikes e testimoniato che non è vero che si tratta di operazioni ‘pulite’ ed sostanzialmente innocue. Inoltre, dal punto di vista psicologico, per i piloti da remoto sembra quasi un video game, come uccidere formiche  invece di uomini ed è quasi un divertimento ucciderne uno dopo l’altro. Eppure, ci sono conseguenze psicologiche anche per loro, con stress post-traumatico. Ora alcuni di questi informatori sono stati coinvolti in pubbliche audizioni e documentari come Drone e National Bird o report e leaks come The Drone Papers. “Tuttavia ci sono ancora molti elementi mancanti. La strada è chiedere maggiore trasparenze ed essere maggiormente aggressivi come giornalisti”, conclude di Salvo.