Come raccontare la violenza sulle donne: linee guida per giornalisti

 

 

Non  bisogna parlarne solo di più, bisogna parlarne meglio! Questo è l’elemento chiave del panel sulla violenza sulle donne e il ruolo dei media. Esperte giornaliste provenienti da Italia e Regno Unito, moderate dalla giornalista di politica estera Sofia Lotto Persio (International Business Times UK),  hanno messo a confronto le loro esperienze in un aperto e istruttivo dialogo con il pubblico. In particolare, hanno messo in luce gli errori più comuni e gravi commessi dai media nel raccontare queste storie e hanno fornito consigli preziosi per migliorare tale narrazione.

Nonostante i media raccontino di frequente casi di femminicidio, “ossia l’omicidio di una donna in quanto donna”, la violenza sulle donne non sembra diminuire in questi anni, sottolinea Lotto Persio. La giornalista italiana ricorda che la violenza sulle donne comprende anche lo stupro, lo stalking, le molestie sul lavoro- generi di violenza che vengono riferiti alle autorità in misura minore. “Secondo l’Istat, in Italia il 78% dei casi di stalking non vengono denunciati alla polizia; nel Regno Unito, secondo  Rape Crisis UK, l’80% dei casi di stupro denunciati non arrivano a processo”. Un problema fondamentale, in tale contesto, è il modo in cui i media rappresentano sia la donna sia l’attentatore o assassino.

Claudia Torrisi (Chayn Italia) evidenzia come in Italia si parli della violenza di genere ancora in maniera inadeguata: “se ne parla soprattutto in occasioni comandate, come il 26 Novembre (per la manifestazione in piazza contro la violenza delle donne, ndr) oppure in casi di femminicidi particolarmente cruenti”.  Anche limitarsi a riportare i numeri del fenomeno non aiuta a comprenderlo al meglio, innanzitutto perché in Italia non esiste un metodo univoco per classificare tali casi; in secondo luogo, esiste una fortissima componente sommersa, ossia le violenze taciute all’interno delle mura domestiche. Pertanto, focalizzarsi solo sulle denunce non è sufficiente. Inoltre, continua Torrisi, in Italia i programmi televisivi spesso non si rivelano all’altezza, in quanto spesso presentano l’idea che una donna possa venire uccisa da un uomo “perché l’amava troppo”. È lo stesso stereotipo che porta alla violenza di genere. “Il problema è che il discorso viene scollato dal suo contesto sociale e limitato alle responsabilità individuali di un uomo come mostro e di una donna come vittima senza una capacità di autodeterminazione”.

Torrisi fornisce alcuni esempi, come un’intervista a un uomo che nella sua vita aveva picchiato diverse compagne, in cui intervistato e intervistatore condividevano pressapoco lo stesso punto di vista: si trattava di un amore malato accettato dalla donna. È un ragionamento pericoloso, oltre che sbagliato, perché, da un lato, il pubblico giudica il tipo di donna soggetta a violenza come un figura debole e incapace; dall’altro, le donne sono portate a sentirsi colpevoli per il fatto di essere in tale situazione. In poche parole, il messaggio che passa è che la colpa è della donna, alimentando così l’isolamento.

Quanto alla rappresentazione dello stupro, i media italiani contribuiscono spesso alla sua normalizzazione, rappresentandolo quasi “come una cosa sexy e come un fatto che può capitare e pertanto non particolarmente grave o eccezionale”, continua Torrisi. La donna spesso è descritta come provocante, la violenza come qualcosa di evitabile (ad esempio, “è colpa della donna che si era seduta da sola in uno scompartimento del treno”). Il vero focus è spesso sugli assalitori, sui loro sentimenti, ma quasi per giustificarli nel loro gesto.

Nella narrazione del femminicidio, le storie di frequente presentano una coppia felice sino al momento del delitto, con interviste a vicini sconvolti che non si sarebbero mai aspettati un esito del genere. “In un caso recente, accaduto a Verbania, i  media hanno raccontato che l’uomo aveva accoltellato la compagna perché ‘non sopportava che lo lasciasse’, mentre solo un paio di giornali locali hanno riportato che l’uomo aveva precedenti per percosse”, spiega Torrisi mostrando i titoli dei giornali sullo schermo in sala.

In generale, lo schema è quello della donna che fa qualcosa che scatena la reazione dell’uomo, in particolare perché non vuole essere lasciato e rimanere da solo. Il problema di descrivere l’uomo come mostro o qualcuno preso da un raptus come giustificazione è che, così facendo, si comunica un black out mentale, cioè che non esiste la facoltà di capire, per tale soggetto, se commette o meno la violenza. Inoltre, è diventato uno schema talmente fisso che si rinuncia persino a porsi delle domande: il raptus nel sonno o il raptus durante l’ultimo incontro tra amanti che si conclude con uno che spara all’altro. “Ma la domanda da farsi è come mai questa persona si è procurata una pistola ed è andata armata all’incontro”, conclude Torrisi.

Cristiana Bedei, giornalista freelance concentrata sui diritti delle donne e di base nel Regno Unito, si appella anche alla sensibilità del giornalista perché non ci sono regole specifiche, ma non bisognerebbe dare spazio all’assassino. “L’errore spesso è che la donna viene vista solo in relazione all’uomo: lei è la moglie, la fidanzata, la collega, l’amica. Ma questa donna aveva una vita prima, indipendentemente da quest’uomo”.
Ora ci sono organizzazioni che raccolgono e analizzano dati per capire gli schemi di queste violenze, e li presentano in report, così da poter prevenire. “C’è ad esempio questo progetto chiamato ‘The Femicide Census’. Da questo report  emerge che la maggioranza delle donne uccise sono cadute per mano di un partner o ex partner. Da un rapporto delle Nazioni Unite del 2013, inoltre, emerge che le donne sono due terzi delle vittime degli omicidi tra coppie e all’interno della famiglia”.
È necessario dunque presentare questi casi come abusi e come un problema di parità di genere, inscritto nella tutela dei diritti umani. Bedei fornisce ulteriori consigli ai giornalisti: non usare la parola ‘sesso’ quando si è trattato di stupro. O ancora nel caso di sopravvivenza di stupro, è bene definire la donna come ‘sopravvissuta’, e non ‘vittima’. Si comunica così un messaggio di reazione e forza.

Anche il livello visivo è importantissimo. Come racconta la fotogiornalista Stefania Prandi , le immagini usate dai media fanno vedere spesso donne picchiate, che cercano di coprirsi il volto, umiliate: “come se la vergogna fosse loro e non di chi le ha picchiate”. Le immagini usano la stessa logica degli stupratori, con focus sul corpo della vittima della donna. Spesso usano foto di repertorio, che non fanno che aumentare la distanza tra pubblico e vittima. Le donne sono belle, giovani, in shorts o mini-gonne o scollate. Si conferma lo stereotipo che la colpa è della vittima. In aggiunta, “Secondo alcuni studi, pare che la foto traumatica paralizzi o anestetizzi lo spettatore perché è impotente, mentre rimane solo un senso di inadeguatezza morale”. Un modo corretto di fotografare queste donne è anzitutto chiedere loro come vogliono essere ritratte, spiega Prandi. E continua: “Sto seguendo donne abusate nell’agricoltura e tali donne mi chiedono spesso di non mostrare il loro volto”. “Adesso anche l’Ordine dei Giornalisti ha adottato dei parametri, ma le redazioni non si sono ancora adeguate”, conclude Prandi. Anche i programmi tv spesso non passano il test perché usano inaccettabili dettagli morbosi e vanno a caccia di ogni genere di testimoni.

Quando il delitto avviene nei contesti di famiglie di religione diversa da quella ‘tradizionale’ del Paese in questione, esiste anche il problema di liquidarli come qualcosa di insito nella religione (tipicamente l’Islam). Salma Haidrani, giornalista britannica premiata per i suoi articoli sui delitti d’onore nel Regno Unito, ribadisce che si tratta invece di qualcosa legato alla cultura e alla società  e, in definitiva, una piaga che colpisce le donne in generale.

Nelle conclusioni del panel, infine, i media sono stati invitati a raccontare maggiormente storie di recupero psicologico e di rieducazione degli aggressori, così come la difficile situazione dei figli di queste coppie. Bisogna trovare metodi innovativi e parlarne, dunque, “anche quando è difficile”, conclude Lotto Persio. Soltanto riscrivendo i parametri secondo cui parliamo della violenza di genere è possibile eliminare la gender based violence, la violenza di genere.