Comunicare la scienza attraverso l’ascolto: un cambio di prospettiva su scientismo e complottismo

Perchè la scienza non si combatte a suon di schiaffi
La scienza non è democratica, non ammette repliche, si basa sui fatti, li indaga, li studia per stabilire certezze: se tutti la pensassero così, non esisterebbe un dibattito pubblico sull’opportunità della scienza. Le posizioni assunte da pro-scienza e anti-scienza – dicotomia semplicistica ma necessaria per inquadrare il problema – scatena inevitabili riflessioni.

La Sala Perugino dell’Hotel Brufani ha ospitato un panel che ha approfondito questo tema con l’intervento di alcuni esperti. Il titolo dell’incontro è già di per sé provocatorio: “Perché la scienza non si comunica a suon di schiaffi”. Scienza e comunicazione in che rapporto sono? La comunicazione, e più nello specifico il giornalismo, ha delle responsabilità nella divulgazione e  nel rendere accessibili anche le questioni più tecniche.

Ma qual è il ruolo di chi fa comunicazione scientifica? Circostanze e contesti diversi richiedono approcci differenti? È un discorso, quindi, di educazione? Il giornalista deve riuscire a suscitare un interesse o influenzare un dibattito pubblico di rilevanza politica? Il panel cerca di rispondere a tutte queste domande, ma andiamo con ordine.

Antonio Scalari è un giornalista scientifico, nonchè moderatore dell’incontro. Ha introdotto la questione, prendendo per primo la parola. La dimensione pubblica della scienza, ci spiega, nasce con la rivoluzione scientifica a cavallo tra XVI e XVII secolo. All’inizio, però, si configurava solo come scambio di idee tra esperti finché non si comincia a intuire la necessità di riuscire a farsi comprendere dalla società. Quando il pensiero scientifico si trasforma in Big Science (un nuovo modello di scienza che si avvale di grandi staff, grandi macchine, grandi centri di ricerca ed enormi finanziamenti), si pone il problema della sua stessa legittimità agli occhi dei meno esperti. Su questioni ad alto tasso di mobilitazione ideologica l’opinione pubblica prende posizioni, le più disparate. Il compito di chi fa comunicazione è quello di intervenire come vettore del dibattito accademico. In tal senso vengono elaborati alcuni modelli di comunicazione della scienza, come il deficit model: quando scienza e società entrano in conflitto c’è un problema di fondo di analfabetismo scientifico. Banalmente, si discute per ignoranza. Ma questo modello di comunicazione scientifica è messo in discussione quando nella società, tra gli anni Settanta e Ottanta, si inizia a dibattere su problemi come quelli relativi, portando la società civile a interessarsi ed esporsi con sempre maggiore insistenza su temi di carattere scientifico. I fatti scientifici smettono così di apparire neutrali. Valori, etica e ideologia entrano a far parte del dibattito pubblico. La comunicazione cerca di arginare questo fenomeno per sventare il pericolo crescente della disinformazione e della distorsione. Rispetto al deficit model, il public engagement – spiega Scalari – come suggerisce il nome stesso pone il problema del coinvolgimento del pubblico nelle discussioni che riguardano temi scientifici. Un aspetto preso in considerazione dal modello è il framing, ovvero la cornice che contestualizza la discussione su un fatto scientifico. Tutti noi, al momento di comprendere un determinato fenomeno, attribuiamo a parole o frasi un significato che può risultare fuorviante rispetto a quello di partenza. L’approccio a un fatto scientifico controverso può generare alcune distorsioni, ponendosi come un filtro nei confronti della neutralità del fatto stesso. Una delle conseguenza dirette di tutto questo può essere il crollo della fiducia nelle istituzioni scientifiche.

Il panel arriva al fulcro pratico della questione, ponendo l’accento su due temi emblematici: vaccini e salute collegata all’immigrazione, trattati rispettivamente da Roberta Villa, medico e giornalista scientifico e Cristina Da Rold, freelance per Espresso.

Roberta Villa inzia il proprio intervento sui vaccini: la questione dei no vax, secondo la dottoressa, rende il dibattito sulla comunicazione scientifica particolarmente urgente da affrontare. Perché il rapporto tra rischi e benefici, che appare ai medici chiaramente rivolto a favore dei benefici, non viene compreso da una parte dell’opinione pubblica? Secondo la dottoressa Villa quando l’uomo fa una scelta, non si basa solo ed unicamente sui fatti. Ci sono altri fattori che intervengono sulla nostra percezione del rischio. È il “bias di negatività”: se si è, ad esempio, nella foresta e si sente un fruscio, conviene scappare piuttosto che pensare che sia stato il vento. Sottovalutare il rischio non è conveniente. Nel merito, davanti a tante notizie che attestano la positività dei vaccini, tenderemo ad amplificare quell’unica che ne sottolinea un un riscontro allarmanete. Il bias di negatività è un freno al progresso. Il “bias di positività”, invece, è il motore dello sviluppo della civiltà umana.
Si è anche parlato di “bias di rappresentanza e di frequenza”: quando i media parlano di una malattia con più frequenza in un dato periodo, saremo portati a temere quella specifica malattia.

Quindi non è uno scontro tra scientisti, complottisti e scettici. Semplicemente sono tendenze connaturate nell’uomo. Nessuno mette in dubbio, ad esempio, la scientificità  della botanica. È molto più frequente che le persone prendano posizione su temi con connotazioni ideologiche.

Il tema migrazione è affidato a Cristina Da Rold, la quale compie una vera e propria autoanalisi rispetto al suo lavoro di giornalista, raccontando ciò che sta imparando con il suo approccio al “data journalism”. Spesso le capita di imbattersi, tra i commenti sui social ai suoi articoli, in persone molto critiche nei confronti del tema dei migranti. Secondo lei, però, liquidare le critiche come “frutto di ignoranza” è un errore. In tal senso delinea tre tipologie di utenti social “critici”.

Perchè la scienza non si comunica a suon di schiaffiPrima di tutto quelli che faticano a comprendere, per le ragioni più disparate, i concetti espressi dall’articolo. In questo caso la giornalista se ne imputa la responsabilità, in linea con i toni da autoanalisi. Ci sono poi le persone che comprendono il significato dell’articolo, ma non ne condividono i presupposti e il merito. Sono una percentuale “minoritaria”. Questi utenti, ad esempio, non utilizzano il nesso “migrante-untore” per criticare la migrazione. Sono semplicemente contrari al fenomeno per questioni ideologiche. L’ultima tipologia riguarda invece coloro che non credono ai dati. “Chi ti paga? Mi chiedono”. Sono i “complottisti”, per capirci. Il complottismo emerge quindi come un fenomeno sconnesso dall’ignoranza: in questo gruppo, spiega, c’è anche chi ha una preparazione scientifica. Discutere con loro è difficile, ma non discutere sarebbe, secondo Da Rold, un grosso errore perchè non possiamo permetterci di essere giornalisti unidirezionali. Il metodo dell’ascolto è fondamentale al fine di moderare i commenti. Per non limitare queste osservazioni a una mera speculazione teorica, Cristina De Rold ha sperimentato un metodo per ridurre il grado di odio e aggressività: ha raccolto le domande e le critiche più sensate e ricorrenti, ha poi chiesto ad un esperto di rispondere alle stesse domande in un altro articolo. Ne è emersa una differenza nella natura dei commenti e dei toni adottati. La chiave, ribadisce, è l’ascolto. Dare rilevanza ad ogni critica instaura un rapporto diretto con il lettore. L’informazione è una responsabilità.

Insomma, la scienza non si comunica a suon di schiaffi, tanto per rispondere alla domanda di partenza, per una sola ragione: la “violenza” – metaforicamente intesa – non funziona. Ripensare l’approccio a questo pericoloso atteggiamento di chiusura nei confronti della scienza, sempre più diffuso, dovrebbe passare anche per un’autocritica e un’autonalisi del lavoro dello stesso giornalista.

L’ascolto produce. Lo scontro, distrugge.