Confesso che ho indagato

foto di Leonardo Vaccaro

“Perché hai sentito la necessità di dover ‘confessare’ di avere indagato?”. Con questa domanda riferita al titolo dell’ultimo romanzo Confesso che ho indagato, Alvaro Fiorucci (giornalista del TGR Umbria), introduce il pubblico venuto alla presentazione dell’opera autobiografica scritta da Michele Giuttari, attualmente scrittore, ma in passato, per lunghi anni, capo delle Squadre Mobili di Reggio Calabria, Cosenza e Firenze. Un curriculum che lo ha reso uno dei più stimati investigatori dello Stivale, nonché scrittore i cui thriller polizieschi lo hanno reso celebre in diversi paesi europei. La risposta dell’ex poliziotto – che nel corso della propria carriera si è trovato a dover combattere dapprima i sequestri di persona che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 scossero in particolare modo Sardegna e Calabria, poi a condurre indagini a capo della Squadra Mobile di Reggio Calabria sulla crescita della criminalità organizzata della ‘Ndrangheta, e che infine lo ha visto protagonista di uno dei più discussi casi giudiziari degli ultimi cinquant’anni di storia italiana, quello del cosiddetto Mostro di Firenze – arriverà solo nelle battute finali dell’incontro: “Il confesso del titolo è un grido di rabbia, e di dover civico che ha lo scopo di far capire ai cittadini onesti come stanno le cose”. Ma quali sono queste ‘cose’ a cui Giuttari si riferisce? In primis, c’è l’intricata vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista assieme al Pm di Perugia Giuliano Mignini, entrambi chiamati a difendersi di fronte a una denuncia per abuso d’ufficio nell’ambito delle indagini sui mandanti del Mostro di Firenze, per la quale verranno assolti con formula piena perché il fatto non sussiste, ma che di fatto portò al sequestro di fascicoli, e al blocco di quel filone di indagini che avrebbero potuto far luce circa l’esistenza di complici del Mostro.

Ma il tema centrale del libro, nonché dell’incontro, come tiene a sottolineare lo stesso scrittore, non vuole essere il caso per cui viene spesso ricordato, ma la natura del lavoro investigativo, ovvero “ il modo in cui dovrebbe formarsi un investigatore vero.”
Quali sono quindi le doti che contraddistinguono un buon investigatore? “Per essere un buon investigatore – sostiene Giuttari – occorre innanzitutto conoscere i luoghi, le persone, i criminali e soprattutto è necessario sporcarsi le mani recandosi in prima persona nei luoghi dei sequestri, dei crimini e quando necessario andando a catturare i pericolosi criminali mettendo a rischio la propria persona”. A tal proposito, Fiorucci gli domanda cosa ne pensa del modo di investigare del giorno d’oggi. Giuttari nel rispondere non fa mistero dei propri dubbi circa l’ossessione per la scienza “le indagini andrebbero fatte con strumenti classici e tradizionali che molto spesso possono trovarsi in disaccordo con rilevamenti scientifici, che inevitabilmente dipendono a un preciso contesto temporale. Il risultato scientifico (negli ultimi tempi messo spesso in discussione anche negli Stati Uniti) dovrebbe quindi coniugarsi con i classici strumenti dell’investigazione e non da meno con l’intuizione dell’investigatore”.

Anche quando viene sollecitato a dire la sua sull’omicidio Meredith Kercher, che nel 2007 sconvolse il capoluogo umbro, Giuttari non si esime dal dire la sua e nel criticare la troppa imperizia dell’unità investigativa e l’eccessivo affidamento alla scienza. Ma se fosse toccato a lui dover indagare sul caso Kercher, come si sarebbe comportato? “Innanzitutto – spiega l’ex poliziotto – in casi come questi credo sia fondamentale sapersi muovere sulla scena del crimine, in quanto si vanno a compiere atti che sono irripetibili, e che hanno senso solo se svolti in quel preciso momento, in una scena incontaminata e con la presenza dei cadaveri. Io sarei entrato in quella stanza ma non avrei saputo quando sarei uscito. Di sicuro me ne sarei andato senza lasciare nulla al caso e soprattutto pretesti alla difesa sui quali appigliarsi”. E qui rivendica, con orgoglio, come a fare i processi non siano tanto i giudici o i PM, quanto la polizia giudiziaria alla quale “spetta il compito di mettere i giudici stessi nelle migliori condizioni per trarre giuste valutazioni”. Ma per far ciò Giuttari sottolinea come oggi più che mai, specialmente in Italia, ci sia la necessità di fornire a tutte le forze dell’ordine chiamate a condurre indagini buoni mezzi e strumenti, nonché dare loro “maggiore autonomia. – e continua – È inaccettabile che le forze dell’ordine abbiano le mani legate difronte all’utilizzo di strumenti come ad esempio le tanto discusse intercettazioni, diventate carissime perché non più gestite direttamente dal Ministero degli Interni o da quello di Grazia e Giustizia, ma affidate attraverso appalti a società private, che forniscono server e apparecchiature che fanno lievitare i costi e che spesso ritroviamo accusate per fughe di notizie. Occorrerebbe che questi strumenti tornino in mano dei vari ministeri di competenza e che questi li tornino a mettere a disposizione delle forze dell’ordine incaricate di compiere indagini”.

Senza peli sulla lingua e dimostrando tutta la sua dedizione nei confronti di quello che è stato il proprio lavoro che oggi si ritrova a raccontare sulle pagine di libri, Giuttari si congeda dal pubblico rivendicando la propria coerenza “sia nella vita privata, che in quella professionale”.