“I governi ci controllano e non si porranno limiti, solo noi possiamo fermarli”. A lanciare l’allarme è Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia ed ex consulente della National Security Agency statunitense, noto per aver svelato i dettagli di programmi di sorveglianza di massa attuati da alcuni governi. In collegamento Google Hangout dalla località russa in cui si è rifugiato, l’informatico americano è intervenuto al Festival del Giornalismo di Perugia nel dibattito su sorveglianza e privacy moderato da Fabio Chiusi, giornalista freelance autore dell’ebook Grazie Mr Snowden. In collegamento anche Laura Poitras, regista vincitrice di un Premio Oscar per il documentario su Edward Snowden Citizenfour.
Il panel è stato introdotto da Patrizio Gonnella, presidente della Cild, Coalizione italiana per le libertà civili. Presenti in Sala dei Notari anche l’avvocato di Snowden, Ben Wizner, Andrea Menapace della Cild e Simon Davies di Privacy International.
Salutato dal lungo applauso della sala, Snowden ha spiegato quanto siano efficaci i meccanismi di sorveglianza messi in atto dai governi di mezzo mondo. “Non c’è nessuna differenza tra dittature e democrazie, i governi utilizzano gli stessi programmi, solo il fine può essere diverso” ha detto Snowden.
Spesso questo sistema orwelliano, declinato nell’assioma propagandistico “controllo è sicurezza”, è accettato e giustificato con l’esigenza di rispondere a presunte minacce. Ci si trova nel paradosso per cui il cittadino richiede o acconsente a misure che lo fanno sentire più sicuro ma che restringono gravemente le sue libertà. E così l’attacco terroristico a Charlie Hebdo diventa facilmente il pretesto per aumentare il controllo sui cittadini toccando i loro diritti fondamentali.
“La sorveglianza di massa è inefficace”, ha spiegato Snowden, “Questi programmi non hanno mai fatto la differenza in nessuna indagine sul terrorismo, queste leggi ci costano una fetta di libertà e non aumentano la sicurezza. La cosa tragica è che la Francia aveva legalizzato il controllo di massa l’anno scorso e questo non ha impedito l’attentato”. La Corte di Giustizia europea ha bocciato l’anno scorso la direttiva per la conservazione dei dati personali perché troppo invadente e non rispettosa del diritto alla privacy. Il meccanismo si ripete in molti paesi come insegna il caso italiano. Nel decreto antiterrorismo proposto da Alfano, approvato al Senato il 15 aprile, era prevista una norma, poi eliminata, che permetteva alla polizia di entrare da remoto nei computer dei cittadini.
Nel dibattito tra esigenze di sicurezza e diritto alla privacy, la tutela della sfera personale dei cittadini si trova troppo spesso a essere messa in discussione, come si trattasse di un diritto di serie b, sacrificabile nell’interesse della salvaguardia dei cittadini stessi. Un ragionamento perverso che, nella sua declinazione più estrema, si traduce nella svalutazione della privacy all’insegna del “se non hai niente da nascondere non hai niente da temere”.
“Tutti abbiamo qualcosa da nascondere” osserva Ben Wizner, “lo facciamo con ogni genere di attività umana, non è necessario essere un criminale. La privacy non è nascondere, ha a che vedere con il potere, con il controllo, con la libertà. Accumulando informazioni lo Stato guadagna potere, cambia la relazione tra cittadini e stati e la nostra vita potrebbe essere meno libera”. Le attività di controllo alterano gli equilibri, tradiscono il patto sociale e ribaltano principi basilari di diritto. “Di norma le persone sono lasciate in pace a meno che non abbiano qualcosa di cui rispondere” prosegue Wizner. “Adesso abbiamo rovesciato il quarto emendamento che dice che ci deve essere un sospetto prima delle indagini”.
La pervasività di questi meccanismi e la difficoltà di controllare chi ci controlla rendono difficile una battaglia a difesa delle libertà fondamentali. Una soluzione per compensare questo squilibrio è la crittografia anche se già serpeggiano proposte per renderla fuorilegge. “Dobbiamo pensare a come rafforzare i nostri diritti su internet” ha spiegato Snowden. “Si deve competere con i governi. Il giornalismo è un’arma fondamentale ma dobbiamo anche fare un’affermazione politica: dire che vogliamo vivere liberamente”.
Esistono programmi governativi che cercano algoritmi utili a individuare cicli di comportamenti. I risultati ottenuti vengono usati per trovare sospetti. I governi rispondono che non si tratta di un attacco alla privacy finché questi dati non vengono analizzati. “Anche se fossero usati in modo responsabile questi programmi rappresentano il più grande sistema di oppressione della storia. Pure se fosse sostenuto tutto dalla legge dovremmo chiederci se quello che accade è legittimo”.
In questo scenario anche chi parla di questi temi incontra molti ostacoli. Se Snowden non può fare ritorno negli Stati Uniti ed è costretto alla latitanza, chi si è occupato del suo caso non ha avuto vita facile. Laura Poitras, sottoposta a pesanti misure di sorveglianza, ne è un esempio. La vittoria del Premio Oscar ha reso più facile la vita della regista e ha al contempo riportato l’attenzione sul datagate. “Essere riconosciuti dà protezione” ha spiegato Poitras, “spero si diffonda la sensibilità e la consapevolezza sul fatto che c’è una minaccia nei confronti della democrazia”.
È proprio una presa di coscienza globale quella che sembra mancare nell’opinione pubblica mondiale. L’invisibilità di questo pervasivo sistema di controllo ci porta ad accettare gravi violazioni dei nostri diritti che, se fossero più manifeste, avrebbero messo in discussione il rapporto stesso con le istituzioni.
La mancanza di dibattito sul tema, soprattutto in un paese come l’Italia, affatto estranea alle problematiche del datagate, dovrebbe far suonare più forte il campanello di allarme. Quando il Leviatano assume sfaccettature così complesse e si insinua silenziosamente in tutti gli ambiti delle nostre vite diventa necessario metterne in discussione il ruolo: capire se tra le libertà cui siamo disposti a rinunciare c’è anche quella di non essere incessantemente controllati.