Cosa dovrebbe fare Facebook (e gli altri) per il giornalismo?

Giovedì pomeriggio la Sala dei Notari ha ospitato “Cosa dovrebbe fare Facebook (e gli altri) per il giornalismo?”, panel incentrato sulla dipendenza economica delle aziende giornalistiche verso Facebook, Twitter, Google e, in generale, le piattaforme digitali. L’evento si ispira alle conferenze di Newsgeist su cosa dovrebbe fare Google per il giornalismo. Jeff Jarvis ha moderato l’incontro che ha visto come ospiti il media editor di Buzzfeed News Craig Silverman, l’ex direttrice de la Bild Tanit Koch, l’imprenditrice ed ex giornalista del New York Times Jennifer 8. Lee,  oltre che gli studiosi Rasmus Nielsen e Jay Rosen.

Si ma qual’è il problema?

Era difficile tirare conclusioni in questa occasione. Tutte gli argomenti trattati sono aperti e complicati, resi ancora più complessi dalla vicenda Facebook-Cambridge Analytica e dai futuri sviluppi dopo le deposizioni di Zuckerberg al Congresso americano. E, in generale, sono argomenti che coinvolgono tanti temi: l’onnipresenza delle digital platforms, la loro capacità di essere megafoni sia di informazione di qualità che di disinformazione, la necessità per il giornalismo di trovare un modo di essere indipendenti e di guadagnare, e molto altro.

Per prima cosa bisogna quindi metter ordine e capire di cosa si sta parlando, oltre che capire a che punto siamo. Interessante, per esempio, è il primo intervento di Rasmus Nielsen, che riassume bene i paradossi che riguardano il rapporto tra piattaforme e news companies:

“Non c’è dubbio che compagnie delle piattaforme digitali abbiano permesso la distribuzione di disinformazione in vari modi, come è chiaro che gli stessi strumenti sono parte integrante dell’azione di gruppi attivisti come Black Lives Matters and #MeToo o Never Again e di gruppi politici molto regressivi intorno al mondo […] A parte questo dobbiamo tenere in mente almeno due cose in questa discussione attorno alla disinformazione. Una di queste è che al contrario delle paure sulle filter bubbles e le echo chambers la maggior parte delle ricerche che conosco afferma che l’uso dei social media aumenta in modo significativo la diversità delle notizie alla quale le persone sono esposte, in particolare le persone con un interesse limitato nelle notizie e i giovani. Quindi sono una delle poche forze che contrastano alcune delle tendenze nella qualità dell’informazione che vediamo nelle nostre società. Dall’altra parte, mentre è chiaro che queste compagnie stanno sfidando il modello di business del giornalismo professionale così come lo conosciamo, sono allo stesso tempo una delle più importanti forme di distribuzione che il giornalismo.”

In concreto, Rasmus afferma che quello che si è discusso per anni nelle accademie e negli ambienti di ricerca va ridimensionato (non ripensato) e che il nostro peggior nemico è anche uno dei nostri migliori alleati per la distribuzione del prodotto, oltre al fatto che i social svolgono un ruolo fondamentale per le forze regressive e progressive nel suo insieme. Si tratta di un ruolo ambiguo, in ogni sua parte. Google e Facebook sono i dominatori del mercato pubblicitario digitale, ed assorbono una gran parte delle entrate dei media. Anche per questo Facebook non ha mai chiarito la sua posizione nel panorama editoriale, e non è stato nemmeno troppo chiaro durante l’audizione al Congresso, come nota Jay Rosen: “ha detto [N.d.R Mark Zuckerberg] che ‘noi siamo responsabili per i contenuti su Facebook’, un genere di dichiarazione che la compagnia ha cercato di evitare in molti modi. L’ha detto chiaramente. Ciò che non ha detto è che ‘abbiamo delle responsabilità editoriali su ciò che appare su Facebook’. Questo è il passo successivo di cui avremmo bisogno […]” perchè Facebook ha “portato via la distribuzione; ha preso il controllo della relazione tra i fruitori di notizie e il contenuto delle notizie ed, ovviamente, ha assorbito una gran parte dei ricavi pubblicitari”. Ciò però potrebbe comportare una maggiore libertà da parte di Facebook di decidere cos’è buon giornalismo e cosa no – e lo fanno già adesso, secondo Silverman, Lee e Nielsen (Silverman dice di essere d’accordo con loro sull’argomento che hanno spiegato nei passaggi precedenti) – oltre ad avere un peso sul mercato editoriale decisamente sproporzionato, diventando immediatamente il più grande editore mondiale.

Editore o no?

Questa non è una discussione nuova, ma una discussione che cambierà natura e tono nei mesi a venire, specialmente dopo le ultime vicende. Le società informatiche saranno – probabilmente – costrette a render conto dei loro valori e delle loro regole, e non è una questione di poco conto. Come si ricorda Silverman (min 11:18) “loro dichiarano politiche e valori come aziende ed organizzazioni ma in realtà non le rinforzano e non le rendono reali sulle loro piattaforme […] Se le applicassero per davvero migliorerebbero molte cose”. Anche perchè è una situazione inedita, “nessuno si è mai trovato in una posizione del genere e non sanno che fare” e, aggiunge Jarvis, “la scala che permette a tutti di parlare con chiunque attorno al mondo e che apre queste possibilità rende anche impossibile governarle”.

Le soluzioni degli speaker.

Seocondo Jennifer 8. Lee, la prima mossa necessaria è un cambiamento di mentalità nella Silicon Valley, che “sa dar valore a qualcosa solo se può essere misurato, e con molti zeri”. Non si tratta di abbandonare i metodi quantitativi ma di non continuare a renderli predominanti, anche perchè le informazioni hanno un valore di servizio pubblico non quantificabile. Tanit Koch è convinta che  “Facebook abbia un grosso problema nel capire che le notizie e il giornalismo non sono una merce, non è un bene scambiabile. ma che dietro c’è un valore importante per la società.” Lee parla anche di una tensione tra “una mentalità descrittiva contro una mentalità prescrittiva”, cioè una mentalità che ruota intorno alla trasformazione del prodotto e alla soddisfazione del cliente contro un’altra che propone una visione del mondo, e ci chiede di condividerla (se vogliamo).

Andando su un piano più concreto, Jarvis ha chiesto agli ospiti presenti come si potrebbe lavorare insieme, come collaborare in questo clima. Da una parte, lui vorrebbe che tutte le piattaforme formino dei gruppi di ricerca che analizzino i problemi dell’informazione e come migliorarla, dall’altra i giornalisti dovrebbero aiutarli ad identificare il giornalismo di qualità. Tanit Koch non è pessimista sulle collaborazioni con le tech companies (anche per la sua esperienza con la Bild, dove ha avviato alcuni progetti con Google) ma è anche convinta che “dobbiamo essere il più indipendenti possibile da Facebook”Jay Rosen vorrebbe che Facebook nominasse un capo redattore che si concentri sulle scelte editoriale compiute negli anni, ma è anche convinto che Facebook non sarà capace di farlo (per tutte le barriere che venivano citate prima e che Facebook non può di certo regolare da sola). Dovrebbe quindi finanziare progetti e formazione dei giornalisti, così da renderli più indipendenti dal sistema del digital advertisment “che è chiaramente morto”. Silverman ha idee simili: finanziare direttamente le redazioni come modo per ripensare insieme ad un nuovo modello di business, aggiungendo però dei finanziamenti ad organizzazioni indipendenti per definire degli standard aperti e chiari a tutti (come spieghierà anche Jennifer Lee in modo più dettagliato e concreto). Specialmente per quanto riguarda i ricavi pubblicitari. Nielsen puntebbere su “istituzionalizzare ciò che dovrebbe essere la collaborazione multilaterale”, magari attraverso un’organizzazione transnazionale d’impostazione simile all’UE o all’ONU senza esser un organo politico, “qualcosa che potremmo pensare come un’unione giornalistica e tecnologica” che “crei una struttura che civilizzi il conflitto” tra tutte queste aziende concorrenti.

Ma la discussione è stata molto più ampia di questo riassunto. In caso vogliate approfondire, trovate il video dell’evento alla fine dell’articolo, come sempre.