Cosa può fare la tecnologia per il fact-checking: esempi pratici dall’Europa

Far conoscere gli strumenti di base per il fact-checking e il debunking, anche a chi non lo deve fare di mestiere. È stato questo il centro di Cosa può fare la tecnologia per il fact-checking: esempi pratici dall’Europa, uno dei primi workshop di questa edizione del festival internazionale di giornalismo svoltosi nella Sala Raffaello dell’Hotel Brufani di Perugia, dove Barbara Sgarzi e Giovanni Zagni – direttore di Pagella Politica, un progetto di fact-checking increntrato sulle dichiarazioni dei politici – hanno presentato una serie di strumenti gratuiti ed utilizzabili da chiunque per il controllo della veridicità dei contenuti. Il workshop fa parte del progetto SOMA, L’Osservatorio sociale per la disinformazione e l’analisi dei social media, e permetteva il riconoscimento di crediti formativi da parte dell’Ordine dei Giornalisti.

Fact-Checking per tutti

Gli strumenti presentati non sono esclusivi per addetti ai lavori. “Magari li usassero tutti”, dice Barbara Sgarzi. “Visto che siamo tutti potenziali produttori di contenuto, se non altro almeno condivisori di contenuto, con un retweet, uno share o un condividi. Più gente usa questi strumenti, e meglio è”. In fondo, i tipi di falsità che si possono diffondere sono multiformi, e di solito sfruttano un fatto reale per essere veicolati. “Spesso questi contenuti sono costituiti da video e foto e nell’arco di pochissimo tempo, da qualsiasi evento importante, si sviluppano contenuti falsi che iniziano a viaggiare a fianco di quelli veri”, spiega Zagni.

Un esempio è quello che sta accadendo all’ex vicepresidente americano Joe Biden, al centro di alcune accuse per comportamenti inappropriati nei confronti di alcune donne. In questo caso “è circolata molto una foto vera in cui lui parla all’orecchio alla moglie di una persona che stava giurando come ministro. Nell’arco di ore, la foto è stata manipolata: oltre a parlarle all’orecchio, Joe Biden allungava anche una mano. La seconda foto era falsa, la prima era vera”.

Principi per un buon fact-checking

La natura stessa dei social media li rende “croce e delizia di chiunque faccia il nostro mestiere”, continua la Sgarzi. “Da una parte ottimi veicoli di distribuzione, anche dei nostri contenuti, da un’altra ottimo serbatoio e potenziale fonte di notizie ed informazioni, magari possibilità di gettare la luce su notizie che i media mainstream che magari dimenticato, dall’altra parte trappole tese a ogni piè sospinto per il povero giornalista, o lettore”. Probabilmente sono strumenti che si dovranno modificare di volta in volta, con il cambiare delle tecnologie. Un fenomeno al quale stiamo già assistendo è quello dei video Deepfake, “con cui, posto che si abbia a disposizione abbastanza per fare il ‘collage’, si può far dire ad una persona qualsiasi cosa”. Alcuni elementi andrebbero verificati sempre. Però “la fretta, redazioni sempre più piccole, sempre più ridotte, e sempre troppe cose da fare” ci fanno perdere la lucidità, “e ce ne dimentichiamo un po'”, afferma la Sgarzi. Questi elementi sono: la provenienza del contenuto; la fonte; il luogo della notizia; data e ora; “e soprattutto la motivazione. Cerchiamo sempre di pensare perché una persona potrebbe avere un qualche interesse, qual’è la motivazione – se c’è, perchè magari non c’è – a condividere un contenuto”. Infatti, è fondamentale per un giornalista non essere usato per scopi altrui.

Gli strumenti

Infine, i tool. Sgarzi e Zagni hanno scelto una serie di strumenti online gratuiti (ed un paio in versione Freemium, cioè gratis fino al raggiungimento di una soglia dopo la quale serve l’abbonamento Premium) di uso comune e facili da usare. Una prima parte era dedicata al perfezionamento delle ricerche online, a partire dai comandi site: e filetype: per circoscrivere una ricerca su Google (in questi casi, limitando la ricerca all’interno di un sito e per un certo tipo di file).

Per quanto riguarda la verifica delle immagini, un ruolo importante è ricoperto dai motori di ricerca ed i software che permettono di fare delle ricerche inverse. È ad esempio il caso di Google Images o di TinEye. Queste tecnologie non servono a cercare un immagine, ma a capire che percorso ha fatto una già esistente. “Non ci aiuta a sgombrare il campo da tutto, ma almeno a capire se la foto è originale”. Non sono difficili da usare, “un minuto vi porta via”, ma “non lo fa quasi nessuno”. Un esempio è una foto di un aereo schiantato su una spiaggia: spacciato per una foto del famoso volo 370 della Malaysia Airlines, in realtà si trattava di una foto di scena della serie tv Lost.

Un altro elemento per capire la provenienza o la veridicità di un’immagine o di un video riguarda i metadati, cioè le informazioni sul file. Youtube Data Viewer e il Jeffrey’s Image Metadata Viewer servono proprio a scoprire i dati nascosti di un contenuto. Alcuni file pubblicati dai giornali online, sottolinea Zagni, “hanno una quantità di dati che si portano dietro impressionante”, dal nome dell’autore al tipo di macchina fotografica utilizzata, per citarne un paio. L’assenza di questi dati interni può far scattare un campanello d’allarme: “Se una foto non si porta dietro nessun metadato, può essere un’indicazione che quella foto o è stata manipolata, oppure ha fatto un viaggio lungo prima di arrivare dove la state vedendo”. Non ti dà la certezza di una manipolazione (in fondo, i metadati si possono anche semplicemente cancellare), ma fa capire che può aver fatto strade diverse da quelle previste.

Infine, le verifiche dei contenuti dei social network. Per prima cosa, però, bisogna “fare i raggi X” al profilo interessato, controllando se abbia la spunta di verifica, una biografia adeguata, i follower ecc. Se non monta alcun sospetto con l’analisi ad occhio nudo, saranno i tool di analisi delle analytics ad aiutarci:

  • Per quanto riguarda Twitter, Zagni e Sgarzi consigliano Truthnest e Twitonomy. Entrambi permettono di analizzare le interazioni, l’andamento dei follower, l’attività ed altro di un account specifico.
  • L’equivalente per Instagram è Ninjalitics, che “nasce per tutelare le aziende dai finti influencer”, che hanno follower fasulli.
  • Passando a Facebook, gli strumenti interessanti sono due. Uno è Who Posted What?, che consente di scoprire, spiega Sgarzi, “chi ha postato cosa, in ottica di argomenti “. Basta scegliere l’argomento ed un periodo di tempo “per farmi sapere chi ha parlato di X e Y nel 2018, o nel 2019, in questo specifico periodo di tempo”. L’altro è Stalkscan, che analizza le attività pubbliche di un profilo Facebook in maniera molto approfondita. Non raccoglie solo i post condivisi dall’utente, ma anche i contenuti altrui nel quale ha interagito.