Il 2018 è stato un anno epocale per il calcio italiano. Se la memoria di molti già corre all’arrivo di Cristiano Ronaldo alla Juventus in agosto, va ricordato che nella stessa estate il pubblico ha assistito a fallimenti di importanti squadre (come Avellino, Bari, Modena, Reggiana e Cesena), al caso delle plusvalenze e della penalizzazione del Chievo Verona, fino alla Serie B bloccata al TAR o ai continui slittamenti della partenza delle serie minori. Davanti ai fatti, ai dati, si può tranquillamente e necessariamente parlare di crisi del calcio italiano: è stato questo il tema che ha inaugurato gli incontri nella Sala del Dottorato per l’International Journalism Festival, mercoledì 3 aprile alle ore 16, grazie alla partecipazione di Enrico Bergianti, Marco Bellinazzo e Luca Marelli.
La fine del calcio italiano?
A condurre l’incontro è stato proprio Enrico Bergianti, giornalista dell’agenzia di comunicazione scientifica Formica Blu, che per AGI negli ultimi mesi ha svolto un lavoro di data journalism applicato al calcio italiano: dalle curiosità matematiche, l’analisi ha toccato tematiche legate soprattutto la comprensione delle dinamiche economiche e finanziarie delle squadre italiane e non. “Ci siamo spostati a fare un lavoro dalle statistiche e curiosità, di natura da albo d’oro, a vedere invece qualcosa di un po’ più profondo del mondo del calcio italiano” spiega Bergianti, “quindi quest’estate studiando le plusvalenze, studiando il mercato, nell’estate senza campionati del mondo per l’Italia e con l’arrivo di Cristiano Ronaldo, ho visto un mondo molto più in crisi di quello che appariva nei media più esposti”.
Una crisi, dunque. Qui s’inserisce il commento del giornalista del Sole24Ore, Marco Bellinazzo, che cura il blog Calcio e Business, sul mondo calcistico in declinazione economica e ha scritto un libro da cui lo stesso panel ha preso ispirazione: La Fine del Calcio Italiano. Salito alle attenzioni più di cinque anni fa, il lavoro di Bellinazzo ha colmato una lacuna fino ad allora esistente nel giornalismo italiano: quella dell’analisi economica applicata al calcio. “Io credo che stiamo attraversando una delle crisi più gravi della storia del calcio italiano, che parte fondamentalmente dagli anni 2000 e che ci trasciniamo fino ad oggi” ha affermato il giornalista. “La cosa più grave non è tanto la notizia della crisi, perché le crisi arrivano, quanto la mancanza di dirigenti e di una struttura associativa capace di individuare e perseguire gli obiettivi e i target che bisogna avere per uscire dalla crisi. In poche parole, non sanno da che parte andare. Le poche cose che sono state fatte durante la gestione commissariale sono state gettate via praticamente dopo un anno. Siamo, in qualche modo, più indietro di qualche anno fa, salvo qualche eccezione, qualche squadra che sta cercando di trasformarsi, con tutte le difficoltà di farlo in Italia”.
E allora Cristiano Ronaldo?
Mentre i media oscillano tra toni entusiastici e drammatici, la difficoltà di una narrazione critica sul calcio italiano, basata sui dati e i fatti evidenti a livello societario ed economico, si scontra con l’emotività e la credenza che, in fondo, il calcio nostrano non se la passi poi così male. Il caso dei successi e degli acquisti citati della Juventus è stato preso in esame. “La Juventus è un problema per il calcio italiano almeno quanto il calcio italiano è un problema per la Juventus. La Juventus sta facendo un percorso, che poi è quello disegnato dal suo presidente che guarda al 2024 e alla dimensione europea e globale, e Cristiano Ronaldo serve a fare questo salto. Alla Juve, a parte ai tifosi, non frega niente di vincere il 37esimo scudetto. La Juve ha preso Cristiano Ronaldo per sedersi al tavolo delle big, e ci si è seduta”. Il riferimento, come espresso anche nel libro del giornalista, è quello inerente al passaggio di alcune società di calcio ad un modello di cosiddetto sport entertainment company, ovvero aziende con una visione globale non legata solo al mercato o al campionato nazionale.
Una crisi che inizia dai primi anni del 2000: il caso plusvalenze
La domanda, allora, diventa: quando è iniziato tutto? Cosa si è inceppato, quali sono stati gli attori, dove sono le responsabilità delle società? Le cronache quotidiane ci aiutano quando parlano, ad esempio, della problematicità delle plusvalenze. Per semplicità, possiamo dire che una plusvalenza è un incremento positivo: per esser ancora più chiari, in questo caso, si riscontra quando un calciatore viene venduto da una società ad un valore maggiore rispetto a quello per cui lo si era acquistato, registrando così un attivo sul bilancio. Ma non è stato così semplice nella storia del calcio italiano degli ultimi venti anni. Sono state registrate, infatti, plusvalenze reali e fittizie. L’ambivalente e non sempre limpida gestione delle plusvalenze è stata spiegata ancora da Marco Bellinazzo: “Il tema delle plusvalenze è centrale nella narrazione economica del calcio italiano, non a caso uno dei punti centrali del libro affrontava l’uso smodato che ne venne fatto agli inizi dell’anno 2000: si arrivò fino a 800 milioni di plusvalenze”. Valore che sta tornando a quella cifra, dopo un lieve calo. Tutto ciò “è un elemento sintomatico della crisi del sistema”, ha continuato il giornalista. Aldilà della concezione fisiologica, ovvero una leva economica per tutte le società, infatti, negli anni pre-crisi in Italia si è fatto esperienza della parte patologica della questione: l’utilizzo esagerato delle plusvalenze fittizie, ovvero il tentativo di mascherare i buchi nel bilancio ricorrendo a questo strumento.
Il caso Chievo Verona
La scorsa estate è finita sotto i riflettori la squadra del Chievo Verona, che nei bilanci dal 2014 al 2017 ha dichiarato ogni anno circa 45 milioni di entrate strutturali (area commerciale, biglietti e soprattutto diritti tv) e 60 milioni in media di costi, che produrrebbe appunto altrettanti 60 milioni di perdite in quattro anni. In quei bilanci la squadra ha testimoniato un attivo, seppur minimo, ma tale da far apparire i conti in pari: come è stato possibile? Negli stessi anni, il Chievo ha fatto circa 60 milioni di plusvalenze, pari al disavanzo appena calcolato. A permettere il pareggio sono servite vendite di giovani calciatori semi-sconosciuti, formati nel vivaio a costi minimi o nulli, a uno o due milioni di euro l’anno, giocatori “che neanche lontanamente hanno poi visto un campo di calcio di serie C, o B, o A”, conferma Bellinazzo. Al netto degli ammortamenti sul bilancio, dunque, il valore gonfiato di quel giocatore, senza un criterio a priori (un fair value, che ad oggi non esiste), permette di registrare una plusvalenza tale da inserire i ricavi direttamente sul conto economico di quell’anno. L’accordo tra società, infine, ha permesso negli anni di organizzare scambi reciproci tra giocatori, relative plusvalenze e ammortamenti per evitare perdite in bilancio. La conseguenza è l’accumulo di debito, arrivato nel calcio italiano a 4 miliardi di euro. A oggi, le trasformazioni proposte (come il diritto di ricompra) per evitare le plusvalenze, non sembrano indicate a risolvere il problema.
E il Var?
Ma su un aspetto il caso italiano arriva con anticipo rispetto agli altri campionati europei: l’uso del Var, video assistant referee, che tutti abbiamo imparato a conoscere, ma anche a criticare. Ad illustrare le problematiche arbitrali nel campionato italiano è stato l’ex arbitro, oggi autore di un blog molto seguito, Luca Marelli. “Il Var non nasce come una necessità solo degli arbitri, ma come una necessità soprattutto del movimento calcistico: proprio perché la movimentazione di denaro e degli interessi economici ha portato l’Ifab stessa a rendersi conto che gli errori arbitrali all’interno di una partita spostavano troppi interessi.” ha esordito Marelli. L’analisi della moviola, che occupa oggi la maggior parte degli spazi televisivi e giornalistici nei giorni di campionato, deve dunque accompagnarsi ad una serena conoscenza del regolamento. Ha continuato Marelli: “Può capitare anche con la tecnologia migliore, che in questo momento è sicuramente quella della NFL – perché hanno 50 telecamere in ogni stadio – un errore arbitrale modifichi ancora il risultato”. L’errore umano persiste, dunque: la formazione degli arbitri inciderà nel prossimo futuro, come il perfezionamento della tecnologia disponibile. Allo stesso tempo, come può migliorare la narrazione calcistica, secondo Marelli, può farlo anche l’Associazione Italiana degli Arbitri “Quello che a mio parere manca nell’associazione è una comunicazione verso l’esterno. Gli arbitri non parlano mai. Da questo punto di vista, io sono abbastanza d’accordo sul non far parlare gli arbitri subito dopo la partita ma sarebbe il caso di cominciare a far parlare gli arbitri con i giornalisti qualche giorno dopo, dopo il giudice sportivo, perché l’AIA deve cominciare ad aprirsi. Non è possibile che nel 2019 siamo ancora fermi ad una comunicazione da Medioevo”.