“Engagement is a tool”: i perché del giornalismo partecipativo

Josh Stearns (GRDodge.org) ha una vera e propria vocazione per il giornalismo locale. Con il suo LocalNewsLab.org, sta cercando un modo per dare alle esperienze di giornalismo locale delle basi finanziarie forti, sostenute da community ancora più forti. Il tutto combinando strategie di business con quello che considera il punto chiave: la partecipazione.

Stearns elenca tre punti principali:
1) Raggiungere la comunità. I giornalisti devono imparare a condividere sé stessi, la nostra expertise e i nostri contenuti. Non in maniera autoreferenziale, ma anche chiedendo alla comunità stessa. Come?
Con la 2) Conversazione. Ascoltare oltre a parlare, tenere discussioni, partecipare a discussioni che non stiamo tenendo. Il giornalismo è un processo, non solo un prodotto, e più voci garantiscono una maggiore varietà di opinioni.
Il terzo punto vien da sé: 3) Collaborazione. È possibile un investimento condiviso con la comunità per garantire la sopravvivenza del giornalismo locale? Sì, ma bisogna imparare a fidarsi dei contributi degli utenti, permettere alla community di discutere come allochiamo risorse, dargli degli strumenti opportuni.

È a questo punto che vengono presentate le esperienze che più hanno fatto tesoro di queste regole, di questa vocazione per il giornalismo partecipativo. C’è Mary Hamilton, che porta avanti per Guardian US il progetto interattivo The Counted, sui morti da arma da fuoco negli Stati Uniti. Per ogni vittima è stata coinvolta la comunità che lo conosceva, che poteva ricostruirne la storia di vita, oltre alle dinamiche della tragedia. E c’è Malachy Browne, di Reported.ly, che porta l’esempio dei #ParisAttacks, seguiti e “coperti” sul web, con tecnologie di social listening e geolocalizzazione che hanno permesso un’accuratezza impossibile per il semplice inviato sul campo.

La storia che più colpisce però è quella di Larry Macaulay, fondatore del Refugee Radio Network. Va più o meno così: un gruppo di rifugiati che si sente emarginato, non ben voluto dalla società europea, decide di agire. E crea un programma radiofonico per entrare in contatto dapprima con le comunità. Un media alternativo che sfugge dalle narrazioni tossiche del mainstream e racconta le realtà quotidiane dei rifugiati. Raccogliendo storie, perlopiù positive nonostante tutto, il team cresce da 3 a 5 e poi a 8 persone e decide di aprirsi a grandi organizzazioni come Al Jazeera. Ora Refugee Radio Network trasmette una diretta in streaming, di rifugiati per rifugiati, grazie al quale cerca di superare i confini e le discriminazioni di cui Macaulay parla: “Abbiamo capito che se non ci fossimo mossi non saremmo stati ascoltati come avremmo voluto”.

Stears ci tiene a fissare quella che crede sia la dote principale del giornalismo partecipativo, basato sulla comunità: “Not just numbers, but relationships… Trust” (“Non solo numeri, ma relazioni… Fiducia”). Questa vocazione all’engagement con gli utenti si rispecchia nel lavoro dei rifugiati anche con i social media, tesa a ribaltare la narrazione mainstream, piena di luoghi comuni. Le nuove tecnologie sembrano insomma concedere molto spazio e un’enorme quantità di materiale: l’importante per i giornalisti è dimostrare di essere disponibili ad ascoltare: “La comunità è incazzata, ma ha molto da dare”, chiosa Josh Stearns. Tuttavia, “Engagement is a toolset” (“La partecipazione è uno strumento”) e non tutte le storie possono essere sviluppate con essa. Rimane fondamentale il valore della verifica delle fonti, troppo spesso ultimamente messo da parte.

@nicoloscarano