
Pierluigi Perri è un avvocato, e insegna informazione giuridica all’università degli studi di Milano. Per queste ragioni si è preoccupato subito di stemperare la tensione del pubblico nella Sala Priori, Hotel Brufani: “Modererò lo sleeping effect dettato dalla combinazione ‘pedanteria giuristica più pesantezza accademica’, ma voi promettete — come si suol dire — di non sparare subito al pianista”.
Il tema della conferenza sono i cosiddetti hate speech, le espressioni di odio che i media devono imparare a controllare evitandone la diffusione, secondo la raccomandazione del Consiglio dei Ministri — soprattutto in relazione al delicato frangente dei social network.
Attenendoci alla terminologia italiana e alle decisioni della Cassazione, un’espressione d’odio è “la manifestazione di un pensiero che veicola un sentimento estremo di avversione, implicante il desiderio del maggior male possibile per chi ne è oggetto”. Ha continuato Perri: “Il fatto costituisce di per sé disuguaglianza sociale o giuridica, quindi discriminazione”.
Per queste ragioni la Cassazione si è impegnata a definire anche il significato preciso di discriminazione, ovvero “una distinzione, una restrizione o anche una preferenza con uno scopo e un effetto tangibile: compromettere le libertà fondamentali in condizioni di parità”.
L’articolo 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU) — lo stesso che difende la libertà di espressione — decade quindi nel caso di incitamenti all’odio o alla violenza, eventualità che non esclude nemmeno la pena detentiva. Uno degli episodi italiani citati da Perri è il caso Belpietro, quando era ancora direttore de Il Giornale. Gli ambiti di queste discriminazioni sono numerosi e diversificati: razza, nazionalità, etnia, religione, ma anche ragioni politiche, di genere o orientamenti sessuali.
L’avvocato ha voluto sensibilizzare il pubblico in particolare sul tema del cyberbullismo, il quale comprenderebbe, da solo, discriminazioni riguardo a disabilità, estetica, timidezza, origine e abbigliamento.
L’hate speech digitale ha a che vedere con la propaganda, quindi con la diffusione di messaggi volti a influenzare le idee dei destinatari. Negli Stati Uniti conoscono il problema alla perfezione. L’Humboldt State University ha addirittura attivato un servizio per la mappatura dell’odio su Twitter: gli utenti possono osservare non solo i luoghi dove è presente una maggiore concentrazione, ma addirittura scegliere la ‘tipologia di odio’ che intendono monitorare. Altrettanto eclatante è stato il caso di Miss America 2014, originaria dell’India, ma nata nello Stato di New York — quindi americana a tutti gli effetti; qualche ora dopo aver ricevuto il riconoscimento, ha trovato il suo profilo Twitter intasato di insulti e intimazioni a lasciare il paese.
La Cassazione è sensibile soprattutto al caso delle nuove tecnologie di comunicazione, tanto da promuovere l’inserimento di sistemi di autoregolamentazione da parte degli operatori del settore. “Ma se l’autoregolamentazione è filtraggio — ha insistito Perri — che cosa è oggettivamente un contenuto discutibile?”.
Facebook ha un ufficio chiamato goliardicamente “The delete squad”, che si occupa di eliminare quegli elementi — segnalati dall’utenza — che gli operatori stessi ritengono effettivamente inopportuni; ma le persone possono sbagliarsi, o avere opinioni discordanti, e mantenere online elementi discutibili, facendo tornare la discussione al punto di partenza.
La regolamentazione dei contenuti delle piattaforme online è un argomento complicatissimo, perché il web è patrimonio comune a tutto il pianeta, e tocca trasversalmente leggi diverse fra loro senza plasmarsi. I paesi sono frammentati, internet no.
Il consiglio europeo ha quindi definito le espressioni di odio come elementi che comprendono tre parametri: lo scopo perseguito, il contenuto e il contesto. L’hate speech tocca in modo preciso e tangibile tutti questi punti. In caso contrario si parla di espressione inappropriata: una telefonata privata condita da riferimenti razzisti — volti a terzi non presenti alla conversazione — dovrebbe quindi essere considerata, per quanto inaccettabile, del tutto legittima.
Come si colloca dunque il caso Barilla sulle famiglie tradizionali? Guido Barilla aveva dichiarato di non riconoscersi nei modelli di famiglia omosessuale. Perri ha proseguito: “È questa una dichiarazione di odio? C’è discriminazione come se avesse dichiarato di non voler assumere un omosessuale in quanto tale?”. Non si sofferma sulla seconda parte della dichiarazione di Barilla, in cui l’imprenditore specificò che “Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri”. Del resto l’argomento dell’incontro è ciò che è lecito, e non ciò che è inopportuno.
L’articolo 21 della Costituzione Italiana era già stato reputato ambiguo dai padri costituenti, che avevano subodorato dapprincipio il labile ed equivoco confine fra legittimo e pericoloso. Perri ha concluso rimarcando la necessità di un bilanciamento delle dichiarazioni pubbliche: “La libertà d’espressione è sacra, ma quando risulta aggressiva deve essere compressa”.
Matteo Goggia, @TeoGoggia