In una società in cui disparità di genere e femminicidio sono realtà concrete e quotidiane, compito del giornalista è interrogarsi su quale sia l’approccio adeguato a poter affrontare e raccontare i temi di genere in maniera equa, senza cedere a pregiudizi. Questo il focus del workshop “Genere, violenza, molestie: buone pratiche per gli operatori media” condotto da Giulia Blasi per la dodicesima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.
Come scrivere di molestie, di vite schiacciate e messe a tacere per sempre, evitando di cadere in ingenuità pericolose quali la colpevolizzazione della vittima o la patologizzazione dell’omicida?
Giornalista e autrice dell’hashtag #quellavoltache, iniziativa che ha preceduto di pochissimo l’ormai celebre #metoo, Giulia Blasi ha offerto la propria expertise in materia di molestie sessuali e violenza domestica nei media nazionali durante un appassionato workshop, pensato per guidare gli operatori dei media con una serie di pratiche atte a promuovere un giornalismo informato e imparziale nei confronti dei temi di genere.
Perché parlarne ora? Cos’è cambiato? La scrittrice apre il panel ricordando il caso Weinstein, ovvero la pioggia di accuse a sfondo sessuale caduta sul famoso e influente produttore cinematografico, colpevole di aver molestato e abusato di diverse donne nel mondo del cinema. Blasi rintraccia in tale evento il casus belli all’origine della rinnovata attenzione sul tema delle molestie, dibattito che si è riacceso prepotentemente anche in Italia a causa della denuncia di Asia Argento, e che ha dimostrato come la strada da percorrere in questo senso sia ancora lunga, svelando così un’Italia tuttora ancorata a un sistema patriarcale che si illude di essere perfetto.
Nonostante le pressioni derivanti dai tempi redazionali stretti e dall’imperativo del “fare click”, Giulia Blasi ci ricorda come i media siano responsabili della narrazione del mondo a prescindere dall’elemento economico e di come lo storytelling abbia il potere di influenzare e orientare lo sguardo del pubblico.
Di fronte ad una responsabilità del genere, ogni scelta risulta essere significativa, a partire da quella linguistica: infatti, partendo dal presupposto che “tutto è narrazione”, l’autrice sottolinea l’importanza del linguaggio come mezzo per promuovere il cambiamento, come forma di affermazione e realizzazione di un sistema egualitario. Non si parla in questo caso di vezzi linguistici, di giochi da “La settimana enigmistica”, ma di elementi apparentemente minoritari nell’uso della nostra lingua che si fanno invece veicoli delle quotidiane disparità di genere.
Attraverso un excursus che prende in considerazione diverse fonti giornalistiche, la scrittrice dimostra come le imprecisioni apparentemente innocue e così diffuse nei titoli degli articoli dei vari quotidiani italiani siano lo specchio di una società patriarcale ed eteronormativa: basti pensare, ad esempio, alla difficoltà di adottare la versione femminile di termini quale ministro, assessore, o ingegnere. “Suona male”, si dice. Per tutta risposta, Blasi cita Cecilia Robustelli sostenendo che “Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.”
È necessario per i giornalisti ampliare il proprio vocabolario, aprirsi a forme come ministra, assessora o architetta per promuovere un cambiamento culturale che permetta non solo ai bambini, ma anche alle bambine di potersi autorappresentare in ruoli di potere a prescindere da quelli che sono i ruoli tradizionali che incatenano l’immaginario comune.
È proprio questo immaginario, infatti, questa narrazione collettiva che relega la donna al ruolo di moglie, madre, e sorella, senza la possibilità di valere come individuo grazie alle proprie capacità e non alle proprie relazioni. Allo stesso tempo, la si condanna ad essere un oggetto da esposizione, sempre bella, sempre elegante, perché, in caso contrario, viene immediatamente ostracizzata e derisa. Blasi fa l’esempio delle photogallery che impazzano sui siti dei maggiori quotidiani e riviste in cui le donne vengono classificate in base all’avvenenza, alla tonicità, quasi come prodotti da acquistare e non esseri umani con altro da offrire oltre al loro corpo.
Ma è forse nell’ambito della violenza domestica che l’influenza del linguaggio nell’immaginario comune svela il suo potenziale maggiore, non solo a parole ma anche attraverso le immagini. La retorica giornalistica dominante, oltre a romanzare la cronaca con imbellimenti che pongono i fatti in secondo piano, dipinge i casi di violenza domestica o di femminicidio come fenomeni di raptus in cui la donna diventa vittima che “si è cercata” la morte o gli abusi per una qualche forma di sgarro, di violazione di regole non dette.
Donne che vengono accusate di condotte morali promiscue o colpevoli di aver causato l’ira del compagno, il quale viene patologizzato, privato delle sue facoltà razionali perché accecato dalle “passioni” e conseguentemente deresponsabilizzato. “C’è un problema culturale abbastanza se così spesso, in media ogni due giorni, una donna viene ammazzata da un ex fidanzato, un ex compagno o il compagno con cui sta per gelosia e non per passione, perché lui si sente in qualche modo defraudato del suo diritto di essere uomo.”
Dato che il problema si pone a livello culturale, quali possono essere le linee guida da seguire, gli atteggiamenti da cui astenersi per fermare il perpetuarsi di questa continua violenza e disparità verso il genere femminile che pare così profondamente radicata nella nostra società?
Blasi offre diversi consigli: innanzitutto, per quanto riguarda la violenza, è fondamentale evitare di attribuire una qualsiasi forma di responsabilità alla vittima e ricondurre alle azioni del violento una logica emotiva. Inoltre, è importante non patologizzare il crimine o romanzarlo: sono da evitare espressioni quali “troppo amore” o “vittima della gelosia”. È necessario riportare il focus della narrazione sulla vittima, non eliminarla dalla scena.
Tornando sul discorso del genere invece, i don’ts suggeriti dalla giornalista riguardano l’inserire descrizioni fisiche delle intervistate, dando inoltre giudizi estetici. Cruciale è inoltre non ricondurre la donna ai ruoli di genere tradizionali: si parla di una persona in quanto tale, in base alle proprie competenze e non in relazione alle proprie relazioni o capacità riproduttive.
Volendo concludere con una nota affermativa, Blasi ci propone una serie di azioni positive, che ricalcano l’origine stessa del termine “positivo”, vale a dire l’elemento del “porre”. Cosa fare attivamente per cambiare lo status quo?
La fondatrice di #quellavoltache propone una società in cui la partecipazione femminile sia più ampia e viva, suggerendo l’inclusione delle donne nei panel, nei festival e nei comitati in ruoli che esulino da quelli ancillari legati agli uffici stampa, alla comunicazione e alla moderazione. È cruciale superare l’automatismo che porta a pensare che esista un’effettiva meritocrazia della visibilità in favore della promozione delle donne in ambito lavorativo e di carriera. In breve: stop alle quote rosa! Ciò di cui abbiamo bisogno è un’azione di inclusione più organica e non forzata che valuti donne e uomini in base alle loro capacità e non al loro genere.