Una Sala delle Colonne di Palazzo Graziani gremita di persone è quella che ha accolto Federico Ferrazza, direttore Wired Italia, Massimiliano Gallo e Jacopo Tondelli, che si sono voluti confrontare in questa XII edizione del Festival Internazionale del Giornalismo su un tema molto caldo tra i giornalisti, aspiranti e non: è ancora possibile vivere di giornalismo oggi? In che modo? Con quali mezzi? E, soprattutto, è ancora un lavoro che sa, e può, rendere felici?
A quest’ultima domanda tutti i giornalisti protagonisti rispondono un caloroso sì: “per noi il giornalismo è stata una scelta di vita – attacca Tondelli- una missione ma anche una fonte di soddisfazione e di felicità”. “Se sono felice lavorativamente? – prosegue Ferrazza – personalmente sì e questa felicità nasce dal fatto che stiamo vivendo un momento per certi versi fonte di preoccupazione perché quando tu non sai quello che succederà nel prossimo futuro chiaramente non sei mai tranquillo e non sai mai quello che ti devi aspettare però poi io la vivo come se io stessi costruendo il mio futuro o se contribuissi a costruire il futuro del mio posto di lavoro.” Ed è proprio dalla voglia di esprimersi in pieno che spesso nasce la volontà di entrare a far parte del mondo digitale, in cui il business, le tempistiche e spesso i lettori, sono del tutto diversi dal cartaceo. “Facciamo delle cose interessanti – spiega Federico Ferrazza- e utilizziamo le tecnologie per fare giornalismo. Il nostro centro non è la tecnologia ma è sempre la nostra missione, i nostri valori […] e utilizziamo tutti gli strumenti della tecnologia per scaricare a terra questa forza.”
Ma che cosa distingue il mondo attuale da quello in cui il giornalismo era solo ed esclusivamente cartaceo? A rispondere è Massimiliano Gallo, ideatore e direttore di un giornale di informazione online nato dalla volontà di sottrarre Napoli ai luoghi comuni: “Non mi vergogno a dire che durante Tangentopoli, quindi estate 1992-1993, io lavoravo all’Alto Adige a Bolzano e a Trento”, inizia Gallo, ricordando come il suo lavoro di redazione iniziasse alle 10 di mattina per concludersi intorno all’una di notte quando la grande felicità era rappresentata dal tornare a casa con il giornale, dove erano pubblicati i propri pezzi, sotto al braccio. “Da quel momento ad oggi sono passati 25/26 anni , ed è passato un mondo – continua il fondatore del Il Napolista – e io credo di aver vissuto quella sensazione dello sfarinamento, di un mondo che andava in dissoluzione”.
Ad essere cambiato molto da quegli anni è anche il modo in cui il lettore invia il proprio feedback al giornale: mentre prima i lettori si recavano personalmente in redazione, al giorno d’oggi i commenti arrivano tramite la rete e nel passaggio tra queste due forme così lontane e diverse c’è stato il momento in cui, come spiega Gatti, le redazioni si sono sempre più chiuse in se stesse con i giornalisti che non guardano più in faccia chi legge e i lettori che non rispondono più a ciò che gli viene raccontato. Quando scriveva per il cartaceo “Il Riformista”, Gatti dice di aver avuto la sensazione di scrivere senza avere più nessuno dall’altra parte, tranne i politici. Ed è stato proprio il momento in cui ha sentito di aver perso quella sensazione fisica del giornalismo, che indaga per ricevere una risposta e non per ascoltare la propria voce risuonare come un’eco, quello in cui Gatti ha deciso di lasciare il mondo cartaceo per dedicarsi al web, sperimentando il mondo dei blog che si stava contestualmente sempre più sviluppando in quegli anni, ritrovando lì quella reazione immediata che la notizia che si scrive deve obbligatoriamente suscitare per dirsi efficace.
E a chi pensa che il giornalista sia solo colui che scrive nel cartaceo, Federico Ferrazza risponde “credo che sia però solamente una questione generazionale, direi quasi biologica: quando si estingueranno quelli che lo pensano ancora le nuove generazioni non lo faranno più”. Il digitale d’altronde ha tanti vantaggi, tra cui quello di poter raggiungere un gran numero di persone, di scegliere e crearsi la propria identità. Ed è proprio su questo che i giornali online dovrebbero puntare; secondo Gatti infatti il web non può seguire la logica dei giornali tradizionali per cui gran parte del successo dipende dalla quantità dei lettori perché se è vero che avere un gran numero di utenti è importante è vero anche che nel lungo periodo avere solo quelli costringe ad appiattire l’offerta informativa per riuscire ad accontentare tutti. Ed è quindi proprio su valori solidi, chiari e visibili che si fonda Wired Italia. E anche Gatti è convinto che la carta vincente sia creare un giornale fortemente identitario e intellettualmente onesto alla cui base ci sia un’idea chiara di ciò che si vuole fare e che riesca a raggiungere un giusto compromesso tra il mercato e le proprie idee.
Un giornale che è libero di essere se stesso e di esprimersi, però si trova spesso a dover raccontare cose scomode ma, come afferma Gatti, “il lettore non va sempre inseguito ma bisogna scrivere anche ciò che il lettore non vuole leggere e secondo me è un passaggio fondamentale e importante che segna una distinzione netta tra il giornalismo cartaceo e il giornalismo online perché il giornalismo online può cadere in questa tentazione perché poi alla fine la prima cosa che ti chiedono è quanti numeri fai, quanti utenti hai, le pagine viste, il tempo di permanenza e tutto il resto. Però bisogna superare questa fase e riuscire a scrivere quello che tu pensi e proteggere la tua identità. Questo è un passaggio fondamentale che poi viene apprezzato”. E dopo un po’, continua, ci si abitua anche all’aggressione quasi immediata che arriva con i commenti istantanei: “all’inizio ne sono rimasto un po’ scioccato, devo essere sincero. Poi mi sono abituato e oggi mi diverto”, ironizza.
Di solito, quando si pensa al mondo del web si pensa sempre ai giovani che, considerata l’attuale situazione lavorativa italiana, vedono in Internet il mezzo giusto per incanalare i propri talenti. Ma anche chi ha già una carriera avviata e proficua può decidere di investirci. Un esempio è Jacopo Tondelli che prima di spostarsi nel web fondando, a inizio 2011, Linkiesta ha lavorato anche al Corriere della Sera. Ora ha abbandonato entrambi ma ricorda molto bene ciò che è accaduto: “quando iniziammo con un gruppo di persone e di soci a concepire Linkiesta lavoravo al Corriere da due anni e mezzo circa, ci ero arrivato sulla soglia dei trent’anni dopo diversi anni al Riformista” che lui stesso definisce un giornale piccolo, romanocentrico e politicista che lasciava però molto spazio alla creatività e alle passioni dei singoli giornalisti . Il Corriere, invece, è un grande giornale e Tondelli lo descrive come un luogo in cui, nonostante lavorino fior di giornalisti, per avere spazio bisognava aspettare. Guardare la grande azienda dal lato del direttore che cerca gli investitori gli ha fatto realizzare quanto le aziende somiglino alle grandi redazioni e lui che appunto aveva trent’ anni e che, probabilmente, caratterialmente dice di non essere fatto per stare bene in un contesto in cui si cresce del 2% l’anno e devi stare molto attento ogni volta anche a come ti posizioni e a chi ti leghi, ha deciso di tentare altro. L’ambizione d’altronde, è un altro tema fondamentale che costruisce il percorso di felicità, e anche di rischio, di un giornalista.
“Valgono di più centomila persone che dal cellulare guardano il gattino che si mette gli occhiali o mille persone che anche dallo smartphone leggono volentieri 6mila battute molto di approfondimento? Per il modello che abbiamo costruito noi bisogna lavorare perché valgano di più questi secondi che non la pubblicità tabellare di Google”, conclude Tondelli.