Giornalisti uccisi: le loro inchieste sopravvivono grazie al giornalismo collaborativo

Daphne Caruana Galizia a Malta, Jan Kuciak in Slovacchia, Javier Ortega e Paul Rivas in Colombia: nel giro di sei mesi, tra l’ottobre 2017 e l’aprile 2018, quattro giornalisti sono stati uccisi a causa delle inchieste che stavano seguendo. Ne hanno parlato durante la XIII edizione del Festival Internazionale di Giornalismo Carlo Bonini, editorialista di Repubblica, Cecilia Anesi, cofondatrice dell’IRPI e Pavla Holcova, fondatrice di Investiace e collega di Jan Kuciak. L’evento è stato moderato da Drew Sullivan, direttore dell’OCCRP, una piattaforma internazionale di giornalismo formata da 40 centri investigativi e network che ha vinto molti premi, tra cui anche il Pulitzer per l’inchiesta Panama Papers.

Cosa succede quando un giornalista viene ucciso? I colleghi ne raccolgono il testimone e continuano ad indagare sia sull’inchiesta lasciata incompiuta, sia sulle cause della loro morte. Si chiama giornalismo collaborativo: giornalisti di differenti redazioni e da diverse parti del mondo avviano progetti internazionali per far luce su mandanti, esecutori e, soprattutto, sulle cause. Tre diversi progetti internazionali, rispettivamente “The Daphne Project“, “Unfinished Lives, Unfinished Justice” e “Death on the Border” sono riusciti a fare luce sulle loro morti, e hanno continuato ad indagare sulle inchieste per cui sono stati uccisi.

“Esiste una difficoltà reale -spiega Cecilia- nel tornare a lavorare a un’inchiesta dopo che un giornalista, un collega, è morto. Stavamo indagando all’assassinio di Daphne quando, pochi mesi dopo, ci viene comunicata la morte di Jan, con cui avevamo a che fare quasi tutti i giorni”. Cecilia Anesi è cofondatrice dell’IRPI, il primo centro di giornalismo d’inchiesta in Italia che lavora sia a livello locale che transnazionale. La risposta dei giornalisti, dei colleghi, dei compagni della redazione è stata confortante: quando un giornalista muore, gli altri colleghi si uniscono e vanno avanti a indagare. “Quando Jan è stato ucciso -racconta Pavla- stavamo lavorando a un’inchiesta sui legami tra ‘ndrangheta e il governo slovacco. Inizialmente abbiamo subito pensato al coinvolgimento della mafia calabrese ma, successivamente, andando avanti con le indagini, è risultato chiara la partecipazione anche di altri personaggi slovacchi.” Jan aveva 27 anni: insieme a lui è stata uccisa anche la fidanzata, Martina Kusnírova, i due avrebbero dovuto sposarsi due settimane dopo. “Sei settimane prima di essere ucciso -prosegue Pavla- Jan era stato minacciato dalla stessa persona che poi l’ha ucciso: aveva denunciato le minacce alla polizia, ma non è stato fatto nulla.” Il caso dell’assassinio di Jan Kuciak e della sua fidanzata ha causato una forte indignazione nella società slovacca: la pressione delle persone che quotidianamente scendevano nelle strade di Bratislava per chiedere giustizia ha portato a una raffica di dimissioni, tra cui quelle del premier Robert Fico.

Carlo Bonini focalizza il suo intervento su Forbidden Story, un progetto di giornalismo investigativo e collaborativo di enorme importanza.”Un gruppo di giornalisti francesi -spiega Carlo- ha avuto l’intuizione che la morte di un giornalista è un’occasione per evidenziare che il costo della vita di uno di noi può essere altissima per chi lo uccide, se il testimone viene raccolto da qualcuno.” Forbidden Stories è un progetto senza scopo di lucro fondato da Freedom Voices Network: è una rete di giornalisti la cui missione è pubblicare il lavoro dei colleghi che sono stati uccisi, che hanno ricevuto minacce o che sono in prigione. “La redazione -continua Carlo- si concentra su un progetto: se 18 giornalisti di 18 differenti testate fanno pressione, è molto più difficile che gli vengano negate delle informazioni. La nuova frontiera del giornalismo d’inchiesta è il giornalismo collaborativo, non può essere in modo diverso, perchè le organizzazioni criminali sono trans-nazionali.”
The Dafhne Project è uno dei progetti collettivi che questa redazione virtuale ha perseguito in questi anni, e a cui hanno collaborato 45 giornalisti di 18 diverse testate internazionali (stampa cartacea, online, radio e tv).

“Ormai sembra sia diventato più pericoloso indagare il potere che essere inviato di guerra.”, commenta non senza rammarico Carlo Bonini. Quello che occorre fare è, innanzitutto, tutelare e proteggere le fonti: i giornalisti senza fonti non possono lavorare. Anche nei casi più delicati e pericolosi, le persone decidono di esporsi solo se si sentono protette: poi scatta una sorta di effetto domino, e il cerchio dell’omertà e della paura si spezza. The Daphne Project ha funzionato anche perché alcune persone a Malta hanno deciso di parlare, dopo avere avuto la sicurezza della tutela. “Quasi sempre -conclude Bonini- si viene eliminati dopo essere stati isolati: Dafne muore perchè è stata isolata sia dai colleghi che dalla stampa maltese. Se diventa impossibile immaginare il movente della morte di un giornalista, è impossibile anche trovare il mandante.”

Un’altra questione che emerge, e che è un problema che affligge ormai tutti i giornalisti, anche chi lavora in ambito locale, è quello delle querele. Daphne Caruana Galizia è morta con 48 querele tra civili e penali: la querela è utilizzata in molti casi come un’intimidazione nei confronti dei giornalisti. Il marito e i figli di Daphne, dopo aver dovuto affrontare la perdita, devono ancora presentarsi in tribunale per far fronte alle querele che gravano sul nome della giornalista. Bonini chiude con un consiglio: la misura preventiva migliore per tutelarsi è quella di socializzare con i colleghi, condividere con la propria redazione i particolari delle inchieste che si stanno conducendo. Anche nel mondo del giornalismo, individualista e competitivo per antonomasia, dovrebbe esistere una solidarietà fra colleghi che si rispecchia anche nel modo di lavorare, soprattutto nel giornalismo collaborativo. Raccogliere il testimone dei giornalisti uccisi a causa delle loro inchieste è l’unico modo per rendere onore alla loro memoria. Il modo migliore per continuare ad indagare su ciò che è rimasto inconcluso e, nello stesso tempo, sulla loro morte è sicuramente farlo insieme.