Da inizio novembre 2018 la Francia è scossa dalle proteste dei cosiddetti Gilets Jaunes, i gilet gialli, un movimento di difficile definizione, senza leader e anti-establishment. La protesta è stata da subito caratterizzata da aggressioni, verbali e fisiche, ai giornalisti: le edicole date alle fiamme sono ancora un’immagine viva negli occhi dei francesi. A discutere di come hanno reagito i media, nella sala Raffaelo dell’Hotel Brufani, Sylvie Kauffmann, Pierre Louette, Pascal Ruffenach e Florence Martin-Kessler, per il Festival Internazionale del Giornalismo.
“Molti di noi sono stati colti di sorpresa da questa eruzione, ed enorme rottura, del nostro panorama politico e sociale: per i giornalisti e i media è stata un campanello d’allarme, prima di tutto fisico, perché il rigetto è stato molto forte fin all’inizio di questa crisi” ha esordito Sylvie Kauffmann, direttrice editoriale di Le Monde. ”I reporter che sono andati nelle vicinanze dei punti di ritrovo dei gilet gialli sono stati direttamente respinti, fin dai primi momenti”. Durante le manifestazioni, arrivate al loro ventesimo atto, gli appartenenti al movimento non hanno mancato di rimarcare il disprezzo e la rabbia che nutrono verso tutto ciò che possa essere etichettato come di sistema: politica e media mainstream su tutti, colpevoli di aver reso “invisibili” la maggior parte della gente. La difficoltà della cronaca ha riportato la memoria, dice sempre Kauffmann, “alla crisi del 2005 nelle banlieue”.
Il movimento ha da subito oltrepassato i confini tradizionali dei media tradizionali, riunendosi e organizzandosi tramite social network, soprattutto grazie a folti gruppi su Facebook, presto diventati sfogatoi di rabbia e frustrazioni. Da dove nasce questo risentimento? Difficile dirlo, può avere cause profonde nella cultura e nel sistema politico francese. Eppure non è un caso che sono questi i tempi in cui si manifesta, tempi che vedono la vittoria di sentimenti simili sotto forma di elezioni per Brexit o nel caso americano di Donald Trump, prima di attendere le prossime elezioni europee.
Da un’infografica che rappresenta il barometro dell’opinione pubblica, compiuta dal giornale La Croix ogni anno da trenta anni, mostrata dalla fondatrice di Live Magazine Florence Martin-Kessler, si nota come la percentuale di persone che hanno risposto alla domanda “pensi che gli eventi siano accaduti nel modo, o quasi, in cui lo hanno raccontato i differenti media: radio, giornali, televisione e internet?”, cala vistosamente in termini di credibilità e fiducia in corrispondenza dell’ultimo anno, mentre l’unica ad attenuare la caduta è la voce “internet”. La fiducia nei media generale si attesta così intorno al 25%, mai così in basso in trent’anni di produzione dello studio.
È un dato esemplificativo. Lo stesso movimento sembra avere un canale mediatico preferito: è Russia Today – Francia (“è uno strumento esclusivamente online del soft power del Cremlino”, come sottolineato da Martin-Kessler), che ha quadruplicato i propri follower nel giro dei mesi della protesta. La caratteristica del canale è quella di proporre lunghe dirette Facebook Live durante le manifestazioni, sedicenti riprese del mondo reale, di ciò che accade per strada, affianco ai manifestanti. Di simile lavoro è il canale Vècu, che si presenta al pubblico di Facebook denunciando i relativi collegamenti tra i proprietari e i grandi gruppi editoriali.
“Noi giornalisti siamo considerati élite, siamo i cani da guardia del sistema” ha semplificato Martin-Kessler, a proposito delle grandi manifestazioni che hanno preso di mira, oltre ai cameraman costretti a riprendere con dei corpi di guardia, la stessa sede dell’AFP, Agency France Press, esemplificata “sede della Verità”. “Solo il 24% delle persone pensa che i giornalisti siano indipendenti” ha rimarcato Ruffenach, CEO del gruppo Bayard, ritornando sui dati di La Croix, che mostrano anche simili percentuali per quanto riguarda la credenza che i media siano autonomi da pressioni istituzionali di potere o da pressioni economiche.
Una lettura del simbolo della protesta è venuta poi da Pierre Louette, CEO del gruppo Les Echos-Le Parisien:”Tutti noi sappiamo cos’è un gilet giallo: banalmente, quando uno indossa un gilet giallo, che è obbligatorio avere in macchina per eventuali incidenti alla circolazione, è un segno di disagio: lo indossi quando c’è un problema. Significa qualcosa. Mostra una certa padronanza nella produzione di simboli, queste persone non l’hanno scelto a caso: vuole mostrare disagio, perchè c’è disagio”. Louette ha poi proseguito: “Devi sempre iniziare a parlare di questa situazione dicendo che in molti territori francesi e aree francesi le persone hanno pochi soldi per vivere: è difficile viaggiare, è difficile avere accesso nel mondo, qui c’è disagio. Questa è la prima cosa”.
Quanto invece alla mancanza di rappresentanza, denunciata dai yellow vest, Pierre Louette è più lapidario: il problema è una crisi più generale della rappresentanza, comunque importante da considerare ma iniziata probabilmente prima, inseribile in un’analisi di più lungo periodo – relativa agli ultimi trent’anni – da quando si è instillata l’idea nuova nella società che la situazione economica e politica fosse migliore in precedenza. “Le persone in alcune aree francesi ancora non vogliono essere rappresentate, non appena uno di loro appare come leader o decide di creare una lista per correre alle elezioni, molte persone a lui vicine gli dicono ‘tu non ci rappresenti, noi non possiamo essere rappresentati’. Insomma molti di loro hanno l’idea che le loro sofferenze sono impossibili da rappresentare”. Questo si connette al tema di come spesso sui media tradizionali queste persone sono state rappresentate, ammette Louette, che conclude: “Molte persone vorrebbero votare tutto il tempo, ma non eleggere.”
“Dal barometro si può vedere come ci sia un enorme differenza tra i giovani in generale e le persone meno educate rispetto alla fascia di persone più educate, per le quali non si pone il problema [ndr. del vivere quotidiano] in Francia, che rimane invece per quelle meno educate. Noi siamo editori, ma anche mediatori, e probabilmente uno dei nostri ruoli è pubblicare, spiegare e descrivere fatti, ma anche organizzare dibattiti, come cerchiamo di fare, con Bayard, nei sobborghi di Parigi”, ha concluso infine Ruffenach.
Mentre già si avvicinano le settimane che porteranno tutta Europa e anche i francesi a votare le elezioni europee, con una prevista escalation di tensioni e campagna elettorale, la protesta dei gilles gialli non sembra proiettata a calare o fermarsi, anzi. Le sensazioni e le inquietudini, di un blocco sicuramente eterodosso ma piuttosto organico nelle richieste e nel risentimento verso la classe del sistema politico ed economico francese, potranno ancora giocare un ruolo fondamentale nel panorama politico francese.