Il teatro della Sapienza ha ospitato la testimonianza di Zina Hamu, giornalista ventiduenne sopravvissuta al genocidio perpetrato dall’ISIS contro la minoranza yazidi. Il palco è allestito come un salotto, l’atmosfera è informale. Andrea Iacomini, portavoce di UNICEF Italia e Luigi Contu, direttore ANSA, sono seduti ai lati delle protagoniste: Zina, appunto, e Shayda Hessami, attivista per i diritti umani e giornalista. Dopo una breve introduzione di Iacomini e Contu, che pongono l’accento sulla necessità di una maggiore sensibilità da parte del giornalismo rispetto a temi così delicati, viene proiettato un video che ritrae una serie di ragazze nel campo rifugiati di Dohuk, nel Kurdistan iracheno.
Al termine, Shayda inizia a raccontarci la storia del suo progetto “Photographic techniques to empower Yazidi girls”, patrocinato da UNICEF. L’idea nacque quando, in uno degli accampamenti, tentò di parlare con una donna sopravvisuta alla prigionia dell’ISIS, senza riuscirci. La donna non aveva intenzione di parlare con i giornalisti. Non si fidava, ci spiega, del lavoro degli occidentali: vengono a scattare foto e a scrivere ma l’essenza del vero dolore di ciò che si vive in quei luoghi non arriva e la situazione, nei teatri di guerra, rimane sempre la stessa. È stato questo scambio a ispirare il progetto all’UNICEF: corsi di fotografia e giornalismo nei campi rifugiati per dare voce alle ragazze e alle donne che vivono direttamente questa realtà. Per queste ragioni Shayda ha deciso di rivolgersi proprio al fotogiornalismo, quale punto di incontro fra arte e giornalismo. Tra l’altro, queste donne hanno l’opportunità di trovare nuove chiavi di lettura della tragica realtà che le circonda. Shayda è consapevole di come non si tratti di un processo immediato, al contrario. Ha però accanto a sé, durante l’incontro, la prova che il progetto può lasciare il segno. Poi rivolge uno sguardo commosso, fiero e orgoglioso a Zina e la stessa fierezza è negli occhi della ragazza yazidi, la quale ha iniziato a raccontare la sua storia.
“Parlerò di come il giornalismo ha cambiato parte della mia vita e come mi ha consentito di far sentire la voce della mia comunità perseguitata in tutto il mondo”, esordisce Zina. Si paragona ad una foto, che rivela solo una parte di ciò che ritrae: si definisce una sopravvissuta, una giornalista e una fotografa. Dopo l’auto-nomina a Califfo del leader dello Stato Isalmico, Abu Bakr Al Baghdadi, l’ISIS ha vissuto la sua fase di massima espansione territoriale verso l’Iraq settentrionale. In particolare, dall’inizio di agosto 2014, i combattenti dell’Isis hanno cominciato ad assediare alcuni villaggi. In questo periodo Zina ci racconta che viveva con i genitori. Aveva il sogno di diventare medico. Quando era appena diciottenne fu costretta però a rinunciare ai suoi sogni. Una settiman a dopo la morte del padre, lo Stato Islamico ha occupato l’intera regione in cui viveva. Ricorda chiaramente il momento in cui arrivarono nella sua città, a Sinjar: era a letto quando ha sentito le urla.”Mamma ci ha svegliati. Dovevamo partire. Un amico di mio fratello ci ha detto di fare delle scorte di cibo e di acqua: eravamo confusi. Mio zio e mio fratello hanno deciso di seguire l’esodo di persone che lasciavano la città per rifugiarsi sulle montagne”. Trattenendo a stento le lacrime, racconta il viaggio in macchina con la mamma e la cognata, incinta e con un figlio. Il resto della famiglia le seguiva a piedi. Poi hanno abbandonato l’auto per affrontare due giorni di cammino per arrivare in cima a una montagna, stanche e disidratate. Sono rimasti nascosti per undici giorni fino al trasferimento al campo rifugiati. “Mi sentivo morta, non c’erano cose belle per cui valesse la pena vivere. Poi, ho sentito di una donna che voleva fare dei corsi di formazione fotografica nel campo, era Shayda Hessami. Voleva fare delle donne yazide delle giornaliste”. Insieme ad altre otto ragazze ha preso parte all’iniziativa. Sorride. Il giornalismo ha dato a queste ragazze una nuova speranza di vita in grado di trasformare la loro paura in un senso di vittoria e riscatto. Zina sa che attraverso la sua macchina fotografica può essere testimone del suo coraggio e di quello di tante altre donne e ragazze come lei.
La chiusura dell’intervento lascia addosso un senso di inadeguatezza che viene prontamente colto da Luigi Contu. Poi è il momento delle domande. Il microfono arriva a un ragazzo straniero che prende la parola in un italiano un po’ stentato. Non si presenta. Dice solo che capisce Zina, anche lui apprtiene ad un’etnia perseguitata. Poi si chiede se i governi occidentali non avrebbero potuto aiutare la popolazioni piuttosto che armare i ribelli contro Assad. Per un attimo penso sia una domanda scontata. Tanto scontata quanto legittima. L’ultima riflessione di Iacomini può servire a chiarire ancora meglio: la rabbia dovrebbe essere rivolta, infatti, contro una classe dirigente globale non adeguata e per nulla sensibile a queste tragedie. Fa più notizia il vento di guerra di queste ultime ore, piuttosto che i costanti e immensi tentativi di pace che ogni giorni vengono portati avanti, conclude il portavoce di UNICEF.