All’alba delle prossime elezioni europee, qualcosa di più di uno spettro si aggira per l’Europa: il populismo. Fidesz in Ungheria, Lega in Italia, Rassemblement National in Francia, Afd in Germania o FPO in Austria: questi partiti populisti, i più importanti in una lista che potrebbe essere più lunga, hanno in comune dei tratti, come il nazionalismo, per cui possono essere definiti di destra. Ma come parlare correttamente di populismo? Ne hanno parlato in Sala Brugnoli per l’International Journalism Festival Caterina Froio, Daphne Halikiopoulou e Leonardo Bianchi, che ha moderato l’incontro.
Populismo è un termine usato di rado nella storia del ventesimo secolo. Prima degli ultimi dieci anni, soprattutto gli storici hanno utilizzato questa denominazione per indicare nella prima metà del secolo movimenti russi, come i narodniki, o statunitensi, come il People’s Party, per non parlare delle analisi politiche negli ultimi trent’anni sul caso italiano, quello di Berlusconi. “Tutto ciò è cambiato molto rapidamente in solo dieci anni, dalla grande recessione economica che è seguita al crollo finanziario del 2008, fino al voto su Brexit e la vittoria di Trump nel 2016.” ha esordito Bianchi, news editor per Vice. “Ovviamente ora il termine populismo è semplicemente esploso ed è interamente inserito sia nel dibattito pubblico che in quello accademico. Il suo impatto è stato profondo e durevole al punto da spingere il politologo Cas Mudde a dichiarare in un recente pezzo del Guardian che questo è il concetto che ha ridefinito la nostra epoca politica”.
Cos’è allora il populismo?
Innanzitutto, è forse un sintomo di arretramento patologico delle deboli democrazie liberali? Sebbene questa può annoverarsi tra le risposte plausibili, l’analisi è andata più a fondo, indagando tra le migliori, o almeno le meno peggiori, definizioni del concetto. “Nella letteratura scientifica possiamo trovare per lo più tre grandi definizioni di questo termine: i più pensano che si possa definire un’ideologia, altri credono che sia più una strategia discorsiva, mentre altri ancora pensano semplicemente che sia uno stile, un modo di comunicare” ha subito spiegato Caterina Froio, ricercatrice in Political Science/e-politics presso l’università di Parigi Sciences Po. Se consideriamo il populismo come un’ideologia intendiamo che questo sia un messaggio che da solo, nella sua autonomia, riesce ad interpretare la complessità della realtà sociale e politica; allo stesso tempo, chi lo considera uno stile comunicativo e discorsivo intende che la sua applicazione può cambiare su più fronti della politica. “Nella mia ricerca scientifica io intendo il populismo, seguendo il lavoro di Cas Mudde, come un’ideologia debole”, ha dunque sottolineato la ricercatrice.
A queste parole hanno fatto eco quelle di Daphne Halikiopoulou, professoressa associata presso l’Università di Reading in Comparative Politics: “Paradossalmente, da ricercatrice sul populismo, sono molto scettica sul termine populismo, se questo sia un’ideologia o uno stile, un discorso: penso che un’interpretazione più ampia può essere quella secondo cui il populismo divide tra noi, il popolo, e l’élite corrotte, con una grande enfasi sul popolo”. Cercando di superare anche il fatto che di “popolo” in democrazia parlino continuamente tutte le forze, una distinzione più netta che i populisti creano è quella tra “chi è dentro e chi è fuori” dai confini nazionali, tra chi quindi “dovrebbe appartenere alla nazione e chi no”, ha rimarcato la Halikiopoulou: “Per questo io userei il termine populismo di estrema destra”. Questo è un punto dirimente della questione: “È molto importante avere idea della complessità sul populismo, secondo quanto diceva Daphne, possiamo capire chi sono le persone a cui i populisti stanno parlando”, aggiunge Froio. I pubblici di riferimento dei movimenti populisti sono diversi: “Per i partiti, movimenti e gruppi populisti di estrema destra ‘il popolo’ sono i nativi, nel caso dei partiti populisti di sinistra ‘il popolo’ è il cosiddetto 99%”.
Come sfuggire allora al “paradosso”, come ha detto Bianchi, per cui questi attori che denunciano le élite sono allo stesso tempo ben inseriti all’interno delle stesse? “Direi che conta più il messaggio del messaggero: forse quello che queste persone rappresentano sono sì l’élite, ma il modo in cui pongono il messaggio è un modo attraente per dire alle persone che sono state sfruttate o trattate male dalle élite che non siamo noi, ma un’altra élite. E se voti per noi, risolviamo questo problema”, ha spiegato Daphne Halikiopoulou. È di un parere simile anche Caterina Froio: “In un certo senso non è paradossale perché soddisfa alcuni dei bisogni di queste forze politiche, che praticamente diffondono una visione antagonistica della politica. Anche se sono al governo potranno sempre trovare una sorta di nemico immaginario a cui dare la colpa per tutto ciò che non sta andando come vorrebbero”. I confini territoriali dunque, come la divisione tra un noi e l’élite, sono strumenti in mano ai populisti per strutturare in modo semplicistico il proprio discorso, riducendo così la complessità intrinseca della disputa politica.
Che ruolo gioca la crisi?
In un recente lavoro, volto ad indagare differenze e similarità tra i paesi che hanno subito la crisi come Grecia, Portogallo e Spagna, Halikiopoulou ha trovato come non tanto l’intensità della crisi economica, quanto la stessa natura della crisi ha facilitato l’ascesa dell’estrema frangia di destra. Si evince, dunque, che l’ascesa stessa dei populisti e del pensiero radicale è stato spinto da una parte dalle difficoltà economiche, che inducono scontento nella popolazione, relativamente anche al tema dell’immigrazione, ma soprattutto da una mancanza di sicurezza identitaria, che nasce da un bisogno culturale di rappresentanza. La crisi economica è stata anche il sintomo, infatti, di una grande disaffezione politica, esplicitata nella crisi della partecipazione e rappresentanza politica. Oltre all’economia, di cui costantemente si discute nel dibattito pubblico, il terreno di battaglia politica è soprattutto quello della cultura, come anche la ricerca conferma.
La ricerca, appunto. Quali fattori di studio, a tali propositi, sono presi in esame? Se quelli esposti perfettamente da Halikiopoulou sono validi per un livello di spiegazione generale e della collettività (la crisi economica e la crisi culturale, che si alternano in modo variabile), a livello individuale interessano indici socio-demografici, ad esempio, come ha spiegato Froio: nel caso dei partiti di destra radicale, che puntano fortemente su un messaggio xenofobo, è più probabile che le persone con un più basso livello di educazione votino per questi partiti.
E i media?
Diversi studi hanno mostrato come la massiccia copertura sui giornali dei temi e dei leader dei partiti populisti ha poi portato questi ad aumentare le proprie percentuali elettorali. Eppure, ricorda Bianchi, “I populisti di destra si lamentano sempre di avere una copertura negativa sui giornali, e sto pensando a Matteo Salvini per esempio o Donald Trump, maestri in quest’arte”. Che ruolo giocano i media, quindi, o come possono giocare? “Nell’uso che fanno dei social media nell’indirizzare i media, [i populisti] stanno diventando progressivamente sempre più professionali: sono consapevoli dei codici che i giornalisti usano per diffondere in un modo accativante le notizie. Significa che la maggior parte di queste organizzazioni […] ha una propria leadership che detiene una conoscenza professionale della comunicazione politica, che li porta a preparare ad esempio comunicati stampa che sono già pronti per essere poi subito usati da giornalisti” ha sottolineato Froio.
Sia organizzazioni meno strutturare che partiti politici di destra radicale, oggi, si comportano come tutti gli altri partiti: assumono professionisti della comunicazione politica in un reparto dedicato della propria personale struttura. Su alcuni temi poi, è risaputo, questi partiti hanno formato un loro messaggio forte e predominante, come il caso dell’immigrazione. “Penso che esporre temi su cui questi partiti possono non avere alte competenza è un’idea migliore, allo stesso modo non sono sicura che questo poi sia veramente efficace”. D’altronde, ha ricordato Froio come la collega, è questa parte fondamentale del lavoro giornalistico: cercare temi critici, formulare domande specifiche e sfidare questi leader su un terreno per loro non sempre confortevole, rafforzare dunque delle contro narrazioni rispetto a quelle del potere.
Che strategia usare?
Domanda difficile, che si stanno ponendo tutti i partiti dell’arco politico. Iniziare a comunicare e trattare temi così come fanno i partiti populisti di destra estrema, inseguendo la xenofobia alla ricerca di un guadagno elettorale, non è una strada percorribile. Prima ancora della scelta etica di trattare in un certo modo temi attuali come l’immigrazione, l’elettorato continuerà a votare per chi stima più credibile su quei temi, su chi la maggior parte delle volte è ritenuto l’originale di quel discorso. Ne hanno fatto già la scoperta alcuni partiti conservatori, ma anche taluni partiti di centro-sinistra, che scontano oggi nel panorama europeo un costante declino elettorale.
Allo stesso tempo trattare sempre il populismo come qualcosa di preoccupante e pericoloso ha comunque i suoi rischi. “Voglio dire una provocazione ed invitarvi a pensare che il populismo può anche essere una sorta di correttivo della democrazia, nel senso che alla fine quello che i leader populisti stanno cercando di fare è portare le attenzioni su temi che per molto tempo sono state trascurati dalla politica mainstream”. Come l’immigrazione, appunto, tema entrato in politica negli anni ’90 con l’ascesa dei primi partiti di destra radicale, ma presente come fenomeno dal secondo dopo guerra. “Il disincanto non deve essere monopolio dei leader populisti: tutti i cittadini che hanno a cuore la salute del proprio sistema politico dovrebbero essere preoccupati quando solo metà della popolazione va a votare” ha infine sottolineato Froio, “essere scontenti di come la democrazia funziona non significa essere a populista”.