Il racconto di Abbate in memoria di Ilaria e Miran, 25 anni dopo

La pioggia battente sul centro storico di Perugia non ha fermato i seguaci del Festival Internazionale del Giornalismo, che nella serata di giovedì 4 aprile si sono ritrovati all’ingresso della Sala dei Notari. Ad attenderli, il carismatico Lirio Abbate, che con il suo racconto teatrale ha ricordato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i due inviati del Tg3 uccisi in Somalia. Sono passati 25 anni da quel marzo del 1994, ma ancora la giustizia non ha trovato i responsabili e i misteri attorno alla vicenda sono ben lontani dall’essere risolti.

Nel suo racconto il vicedirettore de L’Espresso mostra numerosi filmati dei telegiornali dell’epoca e delle trasmissioni che nel corso degli anni si sono occupate della vicenda, oltre ad estratti del film “Ilaria Alpi: il più crudele dei giorni” (2003, regia di Ferdinando Vicentini Orgnani). Testimonianze accurate, che permettono anche ai più giovani di entrare nel vivo delle cronache e delle indagini. “Una notizia – esordisce Abbate – che ha stravolto due famiglie, commuovendo non solo il mondo dell’informazione, ma un intero Paese.” Abbate ci tiene a sottolineare più e più volte nel corso della serata che i giornalisti in questa tragedia hanno saputo abilmente sostituirsi agli investigatori e alla magistratura, per cercare di restituire dignità e verità ai colleghi scomparsi. I giornalisti hanno così manifestato “la vera forza del giornalismo, il vero volto, che è quello che fa onore a questa professione spesso denigrata”.

Ilaria e Miran si trovavano in una Mogadiscio lacerata dalla guerra civile e avevano tra le mani una notizia di traffici illegali e rifiuti tossici in Somalia, storia che qualcuno, sottolinea Abbate, “voleva mantenere nell’angolo buio.” Quella mattina di 25 anni fa la giornalista del Tg3 e l’operatore Rai sono stati raggiunti da colpi di arma da fuoco mentre erano a bordo di un’auto. A nulla sono serviti i tentativi del loro autista di fuggire dagli assalitori che gli avevano sbarrato la strada. Anche loro, come la maggior parte dei colleghi italiani, avrebbero lasciato la Somalia da lì a poche ore. Si può percepire lo sgomento e la delusione di un’intera generazione dalle parole di Abbate: “Dopo anni di indagini giudiziarie, tanti indizi andati perduti e tanti magistrati cambiati, siamo ancora allo stesso punto di partenza di 25 anni fa”. Ma sul duplice omicidio di Ilaria e Miran “non può essere posta la parola fine”.

Il mondo intero ha potuto conoscere le zone grigie di questa vicenda grazie alla prontezza dei colleghi giornalisti presenti sul posto il giorno dell’agguato e grazie alla caparbietà di tutti coloro che non hanno voluto girare la testa dall’altra parte. Ecco che in breve tempo le contraddizioni vengono a galla, portando allo scoperto un impianto probatorio fragile, se non addirittura manomesso. In prima linea per la ricerca della verità c’erano i genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi, che hanno aspettato invano fino alla fine dei loro giorni di far luce sulla tragedia che li ha colpiti. Abbate vuole ricordare Ilaria e Miran, “e grazie a loro anche il giornalismo, quello vero, quello che non depista e non mette le notizie nella palude”. Nei momenti immediatamente successivi alla sparatoria, i colleghi di Ilaria e Miran affrontano la situazione di petto e con una lucidità quasi scientifica riprendono ogni cosa, a cominciare dal luogo della tragedia. In un’intervista a caldo rilasciata alla televisione svizzera e riportata poi dal programma Chi l’ha visto, l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino parla di un “agguato bello e buono” aggiungendo poi che “non è stata una rapina, si vede che sono andati in certi posti dove non dovevano andare.”

Il reportage dei giornalisti presenti a Mogadiscio si sposta poi nelle stanze d’albergo dove alloggiavano gli inviati. Gli effetti personali di Ilaria e Miran vengono raccolti per essere trasportati sulla nave militare Garibaldi, al largo delle coste della Somalia. Ogni operazione viene ripresa dalle telecamere, documentando dettagli che saranno indispensabili per lo sviluppo futuro della indagini. “Molti di quegli oggetti che adesso vediamo nei filmati – racconta Lirio Abbate – purtroppo nel proseguo della nostra storia spariranno”, aggiungendo che dall’inquinamento della storia parte il depistaggio. Per fare un esempio, dei taccuini per appunti rinvenuti nella stanza di Ilaria ne arriveranno in Italia solo alcuni, quelli vuoti. Così come a noi è pervenuta solo una parte dell’incontro di Ilaria con il sultano Mussa Bogor, l’ultima sua intervista prima di morire. Tra le numerose incongruenze nelle indagini spiccano i rilevamenti mai effettuati sul luogo dell’omicidio e l’autopsia sul corpo di Ilaria, disposta con ben due anni di ritardo. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla tragedia viene istituita nel 2003 e Abbate racconta come si sia conclusa con tre relazioni, tutte divergenti l’una dalle altre. La cosa che impressione di più di tutto questo racconto è che tempo dopo la chiusura della commissione, il Presidente (Carlo Taormina) intervistato da La Zanzara ha il coraggio di dire che Ilaria Alpi non stava facendo nessuna inchiesta giornalistica, anzi era in vacanza.

Le indagini caotiche e dispersive hanno portato anche alla condanna di un innocente: il cittadino somalo Omar Hashi Hassan che ha scontato 16 anni di carcere per un duplice omicidio che non aveva commesso. Una falsa verità data in pasto ai genitori di Ilaria, un capro espiatorio. Ad incastrarlo un falso testimone, anch’egli somalo, noto con lo pseudonimo di Jelle. “Un colossale depistaggio – spiega Abbate – che arriva nello stesso periodo in quegli anni, con lo stesso know-how di un altro colossale depistaggio, di un altro colossale errore giudiziario che è quello della strage di via D’Amelio.” Jelle farà presto perdere le proprie tracce, lasciando il processo privo del testimone principale dell’accusa, lasciando che questo processo si faccia solo sui verbali. A fare luce sulla vicenda sarà ancora una volta una giornalista, Chiara Cazzaniga: ai suoi microfoni Jelle confesserà di aver mentito in cambio di denaro. Giustizia è stata fatta almeno per uno dei protagonisti di questa vicenda, se di giustizia si può parlare dopo più di 10 anni dietro le sbarre: Hassan è stato assolto dopo la revisione del processo. “Questa sordida storia – commenta Abbate – che lega Italia e Somalia, criminalità e potere, è una storia dove questo paese proietta ombre lunghe, che non è possibile per il giornalismo far scomparire levando la luce alla ricerca della verità. Quelle ombre devono vedersi nitidamente, devono essere descritte, non possono ritrarsi nel buio con il tramonto delle indagini ufficiali.”Abbiamo tutti noi oggi più che mai il dovere di descrivere le vicende nei dettagli. “Credere alle fake news che nulla non può più essere scoperto significa non soltanto offendere la memoria di Ilaria e Miran, ma demolire ancora di più la nostra professione”.

Per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno contribuito alle indagini in questi 25 anni e quelli che terranno alta l’attenzione su questo caso, Lirio Abbate sceglie di nominarli uno per uno. Nella Sala dei Notari vengono infine proiettate le drammatiche sequenze dei momenti immediatamente successivi alla sparatoria di Mogadiscio, in cui si vedono i corpi di Ilaria e Miran venire caricati su un furgoncino, nel disperato e vano tentativo di prestare loro soccorso. Immagini forti, che forse porterebbero lo spettatore più sensibile a distogliere lo sguardo. È importante invece guardarle fino in fondo, per conoscere e capire, per arrabbiarsi e indignarsi di fronte a questa parentesi ancora aperta di storia del nostro Paese. “Giornalisti, continuate a fare domande!”.