Infiltrazioni della criminalità organizzata, tifoserie e copertura mediatica

“Si può giustificare tutto nel nome di un gioco bellissimo come quello del calcio? Evidentemente no.” Amalia De Simone introduce così l’appuntamento di giovedì 4 aprile nella Sala dei Notari in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, dedicato ai rapporti tra criminalità organizzata e tifoserie calcistiche. Sul tema, continua De Simone, a volte “ci si gira un po’ dall’altra parte ”. L’attenzione mediatica porta alla luce questi fatti solo quando ci sono delle inchieste giudiziarie e l’opinione pubblica talvolta “tende anche un po’ a giustificare determinati atteggiamenti”. La presenza della criminalità organizzata nel business del calcio viene così spesso taciuta e nascosta sotto al tappeto.

Non si tratta, però, di cosa nuova. Due anni fa la Commissione parlamentare antimafia ha stilato un report che testimonia l’abituale infiltrazione dei clan nelle tifoserie organizzate e i rapporti che gli esponenti di tali clan intrattengono a vario titolo con le società calcistiche. “Le mafie si atteggiano nei confronti del calcio e delle società calcistiche esattamente come fanno per tutte le altre attività di cui loro si occupano e cioè cerano di acquisirle” e questo lo fanno per due motivi: innanzitutto, anche loro hanno bisogno di consenso, non c’è solo l’atteggiamento intimidatorio della violenza, ma anche perchè vogliono stare in qualche modo dentro la società; l’altra ragione è quella del riciclaggio di denaro.  Sono molte le inchieste giornalistiche che hanno affrontato la questione. Quest’anno la trasmissione Report ha indagato, in particolare, sui rapporti tra la dirigenza della Juventus e le tifoserie organizzate. Ne è nato il servizio Una signora alleanza, che ha scosso l’ambiente sportivo e non solo.

“L’inchiesta in questione – spiega l’inviato di Report Federico Ruffo – è nata quando si è chiusa quella della Procura di Torino, che indagava sulla ‘ndrangheta nell’alto Piemonte, in particolare seguiva il clan Dominello.” Il fiuto per gli affari di questa famiglia li ha portati a mettere le mani sul business dei biglietti del nuovo Juventus Stadium. La Procura scoprirà presto che ad intrattenere rapporti con il clan non sono solo i capi ultras, ma anche alcuni dirigenti della squadra stessa. “La Juventus – spiega Ruffo – riservava ogni settimana tra i mille e milleduecento biglietti destinati algruppo ultras dei Drughi, nonostante ci sia una normativa molto stringente sui biglietti, chiunque frequenta uno stadio sa che il biglietto ora è nominale e non puoi avere più di quattro biglietti a tuo nome.” I tifosi allora fornivano carte di identità prese qua e là e i biglietti venivano poi venduti a prezzo maggiorato. Dalle indagini emerge così un mondo che “non solo non dovrebbe esistere, ma che nessuno sospettava”. Viene coinvolto lo stesso Presidente Agnelli e la domanda che si fanno tutti è: la Juve sapeva di avere a che fare con la ‘ndrangheta? Nella sentenza di appello, che Ruffo definisce “senza precedenti”, la posizione della squadra non è definita in maniera chiara.

L’indagine di Report poi si concentra su Raffaello Bucci, appartenente lui stesso al gruppo Drughi, che aveva fatto le veci del capo ultras Mocciola mentre questo si trovava in carcere ed è stato poi assunto dalla Juventus come funzionario per le relazioni con i tifosi e le forze dell’ordine (SLO, figura prevista dalla UEFA). Ruffo definisce ironicamente questa mossa dei dirigenti della squadra torinese come un “pensiero molto brillante” aggiungendo in seguito “che fai non te lo prendi un bagarino a coordinare i rapporti con la polizia? È uno che sa il fatto suo, no?”. Con le sue conoscenze tra dirigenti e curva, Bucci potrebbe essere un testimone chiave per un risvolto giudiziario delle vicende. La Procura, infatti, lo intercetta per più di due anni. Il capitolo Ruffo, però, prende una piega drammatica: il 7 luglio 2016 muore suicida gettandosi nel vuoto da un cavalcavia della Torino-Savona. Erano passate solo poche ore dal suo primo interrogatorio davanti al Pm. “Bucci è un testimone chiave – afferma Federico Ruffo – ma nessuno lo scrive.” Il suo suicidio è strano, infatti “basterebbe leggere le carte per capirlo. Ma è uno sforzo che in quel momento nessuno si sente di fare, perché il centro di tutto è la Juventus, l’inchiesta e l’ndrangheta: sto Bucci, tutto sommato, quanto poteva mai pesare? Nessuno se lo fila”.

L’inviato di Report, invece, non si ferma di fronte all’apparenza dei fatti. In poco tempo emergono dei particolari contraddittori in relazione a questa tragedia: violazioni procedurali durante l’autopsia, ferite non compatibili con la caduta e strane dinamiche successive al trasporto del corpo in ospedale. La cosa più sospetta, spiega Ruffo, è che le telefonate di Bucci erano controllate da più di due anni, ma proprio nelle ore a ridosso del suicidio un black out manda fuori uso i server della Procura di Torino: “Le coincidenze a volte nella vita sono veramente strane!”. Si scopre in seguito che Raffaello Bucci era un informatore dei servizi segreti e Ruffo inizia così a collaborare in maniera più stretta con i famigliari per capire qualcosa in più sulla vicenda. È proprio di questi giorni la notizia che verrà riesumato il cadavere per disporre una nuova autopsia.

“Uno si chiede perché io faccia anche ballando con le stelle: ora avete la risposta, voglio un po’ di ossigeno ogni tanto”, commenta Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport-Stadio. La mafia entra nel mondo del calcio perché è un business unico nel nostro paese. “Ci sono i soldi, c’è l’ignoranza, la paura, la visibilità: è una chimica pazzesca!” In merito al ruolo del giornalismo sportivo su queste vicende, Zazzaroni definisce i cronisti “disarmati”. “Affrontiamo anche con un pizzico di timore determinate situazioni, perché sono lontane dalla nostra natura e da quella dei nostri lettori. La fede per il calcio a volte è superiore alla fede per Dio”. Un atteggiamento che può rivelarsi pericoloso, perché porta a giustificare tutto ciò che ruota intorno alla propria squadra del cuore. Zazzaroni infine loda il lavoro di Federico Ruffo e della squadra di Report: “Per affrontare un tema del genere in maniera così specifica ci vuole coraggio. E posso anche dire che forse a noi giornalisti sportivi questo coraggio è mancato”.

L’inchiesta di Report però, come spesso accade, non è rimasta priva di conseguenze. Sigfrido Ranucci in collegamento con la Sala dei Notari via Skype racconta le reazioni che hanno seguito la messa in onda del servizio. “Abbiamo ricevuto diverse minacce sui social e Federico ha avuto un tentativo di incendiare la sua abitazione. Siamo finiti tutti e due sotto tutela”. Chi ha seguito la vicenda sulle cronache sa che l’agguato poteva trasformarsi in tragedia. Nella stessa abitazione, infatti, vivono anche i genitori di Ruffo, il quale fortunatamente è riuscito a mettere in fuga chi ha cosparso di benzina l’ingresso e le scale. Senza contare le querele che la redazione di Report riceve di continuo, al pari di molti colleghi che portano avanti inchieste scomode.

Amalia De Simone sottolinea come “ogni anno ci ritroviamo qui al Festival di Perugia a lanciare l’invito alla politica a fare qualcosa, a fare una legge per tutelare il giornalismo, soprattutto quello d’inchiesta, dalle querele temerarie che sono diventate strumento di intimidazione”. Ivan Zazzaroni chiude con una riflessione sul futuro di chi si approccia alla professione giornalistica, affermando che è è  vero che l’editoria è in crisi, ma non dobbiamo perdere la forza di cambiare le cose. I social ci hanno tolto un po’ di credibilità, perché ormai scrivono tutti, ma non per questo non dobbiamo battagliare pesantemente per la nostra categoria, anche per salvare il lavoro dei giovani.