Il Festival internazionale del giornalismo accoglie la prima mondiale del documentario ‘(IN)VISIBLE CITIES’ di Beatrice Ngalula Kabutakapua e Angelo Gianpaolo Bucci. Il progetto, rigorosamente autofinanziato, è di raccontare i migranti Sub-Sahariani nei quartieri di tredici città diverse. Tramite il continuo uso dell’intervista, la diaspora africana è svelata attraverso il racconto diretto dei suoi protagonisti, colti nella quotidiana vita di comunità. Il fine, politico e culturale, è mostrare un ritratto dei migranti africani così da superare gli stereotipi che il senso comune assegna alla loro descrizione e narrazione.
Come nasce il documentario? Che obiettivo vi siete proposti?
Il progetto nasce da un’indagine fotogiornalistica iniziata in alcune città europee. La ricerca si basava sui quartieri in cui risiedevano soprattutto migranti africani, aspetto al quale avevo pensato da tempo e che mi incuriosiva. Volevo capire se fossero quartieri ghetto, se fossero integrati o meno. Dopo l’incontro con Gianpaolo Bucci , abbiamo deciso di allargare la ricerca a livello internazionale, prima raggiungendo Los Angeles e New York e poi aggiungendo altre tappe. Inoltre, volevo approfondire la cultura africana, che è parte integrante delle mie radici. Di obiettivi ce ne sono diversi. A livello mediatico, vorremmo proporre un’immagine del migrante differente, che è quella che sfugge ai media perché ritenuta spesso poco interessante. Dal lato politico, ci interessa comprendere se ci siano delle politiche di integrazione che funzionino, facendo un paragone tra l’Europa, l’Asia e l’America. Dal lato umano, invece, vorremo costruire un network di persone da far collegare al nostro sito, che potrebbe diventare un punto di riferimento sia per chi arriva sia per chi è già da tempo arrivato nelle nuove città.
Attraverso le vostre ricerche, avete rintracciato degli stereotipi nella trattazione dei migranti? Quali sono le parole o le immagini giuste per raccontare la migrazione?
Ci sono termini sbagliati a livello semantico. La parola clandestino ne è un evidente esempio. Quello che ci ha più colpito, dopo un incontro con gli studenti di una scuola media, è stato l’immaginario comune per cui si migrasse solo utilizzando i barconi. Il che sottolinea un problema interno al sistema dell’informazione. Bisognerebbe mostrare i processi migratori in tutte le loro interne varietà.
Hai notato delle differenze tra i migranti di prima e di seconda generazione?
Per le seconde generazioni, come nel caso specifico della città di Cardiff, abbiamo notato una difficoltà nella relazione con l’Africa. In America, tuttavia, per le seconde generazioni è stato più semplice integrarsi. Lo sforzo che hanno dovuto subire appena arrivati – la non conoscenza della lingua, la scuola o i problemi di bullismo – ha facilitato l’integrazione. Generalmente, per le prime generazioni è stato più difficile.
La politica migratoria italiana?
Penso sia necessario rivolgere alla questione dell’integrazione una maggiore attenzione. Soprattutto, occorre capire l’autentico significato dell’integrazione. Quello che vogliamo fare con il documentario è anche fornire uno strumento ai politici. Mostrare come la migrazione sia individualmente vissuta può far comprendere cosa funziona, e cosa no, nelle attuali politiche della migrazione. Prima compiere un’analisi su quello che funziona a livello umano, poi capire come si possano sviluppare delle politiche specifiche.