Jeff Jarvis, giornalista, consulente nel settore media e professore alla City University di New York (CUNY), crede che il giornalismo debba riformarsi mettendosi al servizio dei lettori. Lo ha spiegato con un keynote speech intitolato “Al diavolo i mass media”, che si è tenuto sabato 18 aprile, nella cornice della Sala dei Notari.
L’intervento è stato introdotto da Massimo Russo, direttore di Wired Italia, che ha ricordato come dal 2008 il mercato editoriale dei quotidiani in Italia abbia perso un quarto del proprio valore, e ha invitato il pubblico a riflettere sul fatto che la salvezza del giornalismo non deve coincidere per forza con la salvezza dei giornali.
Jarvis ha poi preso la parola dicendo che il modello di business dei mass media, basato sulla pubblicità, è stato condannato dall’abbondanza di contenuti disponibili che Internet ha portato con sé. Il problema delle grandi società d’informazione non sono dunque Google e Facebook, bensì la fine del controllo delle notizie da parte loro. Perciò, secondo Jarvis, è necessario ripensare lo scopo di queste grandi aziende, passando a considerare il giornalismo come un’attività dispensatrice di servizi, non solo di contenuti.
“I contenuti riempiono gli spazi, i servizi raggiungono obiettivi. Il giornalismo deve esistere per raggiungere obiettivi per il pubblico a cui offre servizi. Deve esistere per migliorare le vite degli individui e delle comunità” ha affermato Jarvis. E per riuscire in tale impresa bisogna considerare i lettori come individui e come membri di comunità, non più come numeri in una massa indistinta. Bisogna conoscerli, conoscere i loro problemi e i loro interessi.
Il discorso di Jarvis si è articolato intorno a tre questioni, affrontate anche nel suo ultimo libro, Geeks bearing gifts – peraltro disponibile gratuitamente su Medium. In primo luogo, il nuovo tipo di rapporti tra giornalisti e pubblico. Poi le nuove modalità per fare informazione, le nuove forme, i nuovi mezzi. Infine, ma non da ultimi, i nuovi modelli di business per rendere sostenibile l’attività giornalistica.
Innanzitutto, Jarvis ritiene che nel nuovo ecosistema dell’informazione, in cui gli attori si sono moltiplicati, sia necessario specializzarsi: “Fate quello che sapete fare meglio, e collaborate con altri per il resto” è il mantra che spesso ripete. Ed è un suggerimento per i media pubblici europei, che dovrebbero essere ridefiniti, secondo Jarvis, per diventare una piattaforma per l’intero ecosistema mediatico.
Un luogo adatto alla sperimentazione, promotore di qualità, aperto alla collaborazione con il pubblico. Per costruire un tale modello anche i giornalisti dovrebbero cambiare, trasformandosi in “organizzatori di comunità”. E in quanto tali difendere e sostenere delle cause. “Se non è difesa, se non è sostegno, probabilmente non si tratta di giornalismo di primo livello” ha affermato Jarvis. Il Guardian, ad esempio, è impegnato in una campagna per invitare la Bill and Melinda Gates Foundation e Wellcome Trust, le due più grandi fondazioni al mondo, a disinvestire nei titoli petroliferi: il successo del quotidiano britannico non dipenderà dunque dalle visite alla sua homepage, bensì dal risultato di questa operazione. Il sistema di misurazione deve cambiare, il paradigma basato sulla pubblicità deve essere rivisto.
“Possiamo anche essere educatori, stando attenti però a non diventare paternalistici nel farlo” ha continuato Jarvis, che ha poi spiegato come alla CUNY abbiano introdotto un nuovo corso di studi in social journalism: “Stiamo sperimentando con i nostri studenti i modi per rivolgersi in primo luogo alle comunità per osservare, ascoltare e scoprire quali siano i bisogni delle comunità, prima di riflettere sugli strumenti giornalistici più adatti a soddisfare le loro necessità”.
Una via praticabile potrebbe essere ad esempio quella della membership, in sostituzione al vecchio concetto dell’abbonamento. Costruire un senso di appartenenza nei lettori dunque, non solo attraverso il riconoscimento in un brand come può essere The New York Times o The Guardian, ma tramite il coinvolgimento del pubblico nelle attività del giornale, nelle sue cause. È un senso di appartenenza nei confronti di campagne come quella del Guardian quello a cui ha fatto riferimento Jarvis. Ha poi aggiunto: “Il problema di noi che lavoriamo nei media è che definiamo le comunità dall’esterno. I millennial. Negli Stati Uniti, gli ispanici. Questi sono gruppi che non si autodefiniscono come comunità”.
La membership può essere progettata riflettendo sui modi con cui il pubblico può contribuire, “non solo pagando, ma anche con l’impegno, con i contenuti, con il marketing” ha ipotizzato. Ma come ricompensare i lettori? L’accesso ai contenuti non è più sufficiente. Inviti a eventi e sconti sono solo alcune delle alternative che si possono considerare. In conclusione, attorno alla rapporto di membership molto può essere innovato e si potrà assistere alla nascita di nuove tribù, nuove valute, nuovi modi per contribuire e per premiare chi collabora.
Riguardo invece le nuove forme giornalistiche, Jarvis ha subito precisato: “Non voglio sopprimere l’articolo”. Tuttavia, sarà necessario integrare la pubblicazione di pezzi scritti con nuove soluzioni. Per riuscirci è necessario sperimentare, tenendo a mente l’importanza crescente che ha la tecnologia mobile nel modo in cui le persone si informano. Il liveblogging, i tweet, il data journalism sono solo l’inizio, presto vedremo forme che ancora non riusciamo a immaginare.
“Sento molto parlare di come dobbiamo passare al mobile per ogni cosa che facciamo” ha continuato Jarvis, sottolineando come però non si possa pensare di trasferire i contenuti senza riflettere su come questi vengano visualizzati sullo schermo di uno smartphone. Facebook è presente nei nostri dispositivi con quattro app diverse, e dunque con quattro diversi servizi (Facebook, Messenger, Instagram e WhatsApp): chi fa informazione deve ispirarsi a queste strategie quando progetta il passaggio al mobile, ed elaborare servizi personalizzati. È necessario riorganizzare le notizie attorno alle necessità del pubblico, che deve essere conosciuto individuo per individuo.
Come realizzare questa riorganizzazione delle notizie? Prendendo in considerazione diversi tipi di necessità. Jarvis ha proposto alcuni esempi: “Un caso d’uso: ho due minuti di tempo, dimmi cosa sta succedendo nel mondo in questo momento. Un altro caso d’uso: ho mezz’ora, coinvolgimi. Un altro: voglio davvero seguire questa particolare storia, se succede qualcosa di nuovo assicurati di aggiornarmi. Un altro ancora: voglio connettermi con i membri della mia community per raggiungere un obiettivo insieme, etc”.
Nella parte finale dell’intervento, l’attenzione è stata portata sui modelli di business. In primis, sull’idea del digital first, cioè quella strategia per cui le versioni online dei giornali sono considerate più importanti, prioritarie, rispetto alle edizioni cartacee. Advance Publications, la società d’informazione per cui Jarvis lavora, è passata in pieno al digital first: ogni contenuto è pensato per il digitale, e gli addetti a re-impacchettare i contenuti per la carta non possono commissionare a loro volta prodotti concepiti per la stampa. “La stampa non comanda più l’organizzazione e la cultura di ciò che era chiamato quotidiano” ha ribadito Jarvis. Questo implica che ci si debba chiedere: che cos’è il giornalismo allora?
Anche un’altra domanda sorge spontanea: come rendere il proprio business sostenibile nel digitale? È finito ormai il tempo dei mass media, il cui business si basava sulla supposizione che ogni lettore avrebbe visto ogni pubblicità, ragione per cui il valore degli spazi pubblicitari era calcolato considerando tutti i lettori. Le metriche del passato però non sono più valide. Adesso i clik consentono di sapere quanti messaggi pubblicitari siano stati effettivamente visualizzati. Per questo “i click portano ai gattini”.
Una volta stabiliti i nuovi rapporti tra giornalisti e pubblico, e dopo aver innovato le forme dell’informazione, potremo mettere in piedi nuovi modelli di business, secondo Jarvis. C’è chi sostiene che l’unica soluzione siano i paywall, ma Jarvis, per quanto non sia contrario a questo metodo, ritiene che sia utilizzabile solo da entità mediatiche di indubbia autorevolezza come The New York Times, che meritano di essere sostenute anche solo per l’ottimo lavoro che fanno.
Nemmeno il native advertising convince Jarvis, che in proposito ha detto: “Temo che stiamo abbandonando il nostro ultimo vero valore, che è la nostra voce, la nostra autorevolezza, la nostra abilità di raccontare storie”. Secondo lui, la soluzione non è il native advertising, come non lo sono i paywall e i tablet. Al contrario, è nei nuovi rapporti tra giornalisti e lettori che va cercata.
In un post intitolato “What could Facebook do for news?” Jarvis ha spiegato come il social network, conoscendo bene i gusti e le abitudini dei propri utenti, potrebbe aiutare i media a fornire le giuste informazioni a chi le desidera. Ragionare da questa prospettiva, quella dei dati, può aiutare il giornalismo a ripensare anche i suo modelli di business.
Chartbeat, con sui il Financial Times ha iniziato a lavorare, utilizza come unità di misura per stabilire il valore di un contenuto il tempo speso con esso (e dunque l’attenzione dedicatagli). Secondo Jarvis non si tratta di una cattiva idea, ma i contenuti potrebbero essere deformati deliberatamente per soddisfare il criterio, senza che a ciò corrisponda una migliore qualità.
“Penso che la metrica che conterà di più alla fine sarà qualitativa. Dipenderà dal valore che avremo o meno nella vita delle persone” ha affermato Jarvis. “Dobbiamo scoprire come fare a misurare questo, e capire quale sia il vero valore del giornalismo”.
L’intervento si è concluso con un’ultima considerazione: in questo contesto è indispensabile che i media continuino a sperimentare nuove forme per costruire il futuro del giornalismo. Ciò non è possibile se chi investe nei media non si dimostra paziente, pronto ad aspettare un po’ per vedere i risultati. Tuttavia, è difficile ricevere buoni finanziamenti che non siano accompagnati da aspettative di immediato ritorno. Per questo motivo, una strada da tentare è quella del “giornalismo imprenditoriale”. Si tratta di ciò che Jarvis insegna ai suoi studenti, e siamo tutti invitati a immaginarlo.
Sono passati centocinquant’anni dall’invenzione della stampa alla nascita primo giornale. Ancora non sappiamo cosa ci porterà Internet. La sfida per tutti noi è scoprire cosa sia il giornalismo, e trovare il modo di renderlo efficiente ed efficace.