Khadija Ismayilova è una giornalista azera piuttosto nota. Dopo un trascorso nella conduzione di un popolare talk show, decide di cambiare completamente la sua carriera e, come scoprirà poi, anche la sua vita.
L’Azerbaigian è una Repubblica Democratica centro-asiatica dove la maggior parte dei giornalisti – e della pubblica opinione, si capisce bene – non fa domande, non parla di una corruzione che attraversa tutti gli strati della società, non conosce neanche l’inglese.
L’uccisione sospetta di uno dei pochi reporter alla ricerca di verità scomode scuote la protagonista della nostra storia, Khadija, che decide di formarsi, di migliorare il suo uso della lingua straniera, di intrecciare rapporti con la comunità internazionale dei giornalisti investigativi – OCCRP – e di incominciare a scavare.
Ma spesso, quando si scava, si arriva più in alto di quanto ci si immagini. E in un’oligarchia di fatto quale è l’Azerbaigian, Khadija non può che giungere a trattare direttamente gli affari sospetti del Presidente Ilham Aliyev e della sua famiglia, con interessi tentacolari e rapporti con tutti i poteri dominanti del Paese.
Miniere d’oro e immense proprietà immobiliari all’estero, yatch e banche. Ma ciò che mette nei guai Khadija è l’inchiesta sulla partecipazione della First Family nella Telecom di Stato, per un giro stimato di un miliardo di dollari: è per questo ‘reato di lesa maestà’ che viene arrestata il 5 dicembre del 2014. Prima della persecuzione giudiziaria, pedinamenti e intercettazioni, fino in camera da letto: alla giornalista non sono risparmiati neanche diversi conflitti con la famiglia, sentitasi ‘disonorata’.
Dal carcere Khadija chiede ai suoi colleghi di continuare il lavoro che ha cominciato: è così che, in seno all’OCCRP, nasce il Khadija Project, presentato al Centro Servizi Alessi da Miranda Patrucic. Un gruppo di reporter così continua coraggiosamente nel disvelamento dei conti offshore dove la famiglia Aliyev nasconde i dividendi delle azioni Telecom, così come nel denunciare il controllo di ben otto banche azere, per un business di 3 miliardi di dollari.

Grazie a un utilizzo intelligente dei social media e al tracking costante degli account dei numerosi componenti ed affiliati della First Family, inoltre, viene ricostruita una rete di proprietà immobiliari e non, tra Regno Unito, Dubai e Russia (dove possiede un’enorme dacia). Viene inoltre scoperta l’esistenza di uno yatch del valore di 35 milioni di dollari, che gira indisturbato per l’Europa a spese dei contribuenti azeri.
È a questo punto che Lorenzo Di Pietro, giornalista freelance, racconta i metodi utilizzati per tracciare i movimenti dell’imbarcazione e il modo in cui è riuscito ad intervistare un capitano del tutto inconsapevole degli illeciti che stava portando in mare. Conclude ancora Miranda, anticipando una news: i Panama Papers riveleranno che gli Aliyev sono in possesso anche di una seconda miniera d’oro.
La testimonianza sul Khadija Project ci insegna tre cose: 1) si può fare giornalismo investigativo anche nel 2016, con coraggio e nonostante ogni censura; 2) si può farlo collaborando e costruendo comunità, anche lontane geograficamente, come dimostra la collaborazione con un giornalista freelance come Di Pietro; 3) non si può arrestare la verità, neanche con la forza. In attesa che a Khadija venga concessa la libertà che il suo stesso Paese doveva garantirle.
@nicoloscarano