Kurdistan: la promessa tradita

Eugenio Grosso, Soran Ahmad, Linda Dorigo e Claudio Locatelli hanno discusso di Kurdistan a Palazzo Sorbello, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia.

Ognuno di loro ha introdotto temi diversi collegati tra di loro, cercando di coinvolgere il pubblico nella questione di una delle più grandi nazioni senza stato del mondo. Marta Serafini introduce l’argomento ricordando alcuni fatti di cronaca riguardanti la regione del Kurdistan e la lotta delle milizie curde contro lo Stato Islamico. In particolare si riferisce alla caduta dell’ultimo bastione del califfato islamico a Baghouz e al ritiro delle truppe statunitensi dal parte del presidente Trump. “Il Kurdistan di fatto è uno stato che non c’è, che è stato tradito fin dai tempi del trattato di Sèvres del 1920. I curdi sono un popolo che abita questa regione che si trova al confine con la Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq. Si tratta di un popolo che ha visto nel corso della sua storia più volte le proprie aspirazioni e le proprie aspettative tradite e che ha pagato sempre un prezzo molto alto per quanto riguarda i conflitti della regione”.

Il primo punto di vista sul Kurdistan è quello di Eugenio Grosso, fotogiornalista e documentarista, che si è occupato di questa regione in uno dei suoi lavori: “Kurdistan memories”. Inizia raccontando che il suo viaggio è cominciato nella parte curda della Turchia, dopo i sei mesi di scontri nella cittadina di Cizre tra il governo centrale e alcuni militanti del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Il giornalista si reca nella piccola cittadina nell’aprile del 2016, con un visto da giornalista del governo turco e inizia a scattare delle fotografie e a sentire raccontare la loro condizione di curdi in Turchia. In particolare, racconta, “ricordo molto bene un ragazzo che insegna inglese che mi dice ‘io insegno inglese, ho la capacità di comunicare con gli stranieri, ma io non ho mai visitato un paese straniero, io non posso lasciare la Turchia perché non ho un passaporto. A me non interessa avere un Kurdistan indipendente, che sia un’altra nazione staccata dalla Turchia, io vorrei in quanto curdo avere gli stessi diritti di ogni turco”. Dopo questo periodo, racconta, è uscito dalla Turchia, è tornato a casa e si è fatto sempre più coinvolgere dalla storia di questo popolo.

Grosso si reca allora nel 2016 nella regione del Kandil, il Kurdistan iracheno, dove il PKK ha i suoi campi e inizia ad incontrare molte persone, in particolare molti ragazzi giovani, che vengono da villaggi in cui hanno conosciuto la vita “moderna” con internet e la tecnologia, alcuni studiavano e altri lavoravano, “mentre invece una volta arrivati sulle montagne conducono una vita da pastori, si svegliano all’alba quando sorge il sole e vanno a letto alle nove. Non hanno alcuno svago, non hanno proprietà, non hanno nulla. E io inizio a chiedermi cosa spinge un ragazzo di vent’anni o di diciotto anni, pensando a come ero io alla loro età, a rinunciare a tutto per che cosa? Per rischiare la vita, per seguire un ideale più grande evidentemente”. Continua così la sua avventura con il Kurdistan e la sua conoscenza dei curdi, avventura che dopo qualche tempo lo riporta a Mosul, durante la campagna di liberazione della città dall’ISIS. in quel momento si ritrova a documentare i peshmerga, miliziani curdi, durante l’avanzamento delle truppe. Dopo altri viaggi nella regione e moltissime altre storie personali ascoltate e raccolte decidere di condividere la sua conoscenza su questo popolo, per riuscire a dare al mondo, anche in piccola parte, un’immagine di un popolo senza nazione. Così nasce il suo libro, “Kurdistan memories”, che racconta storie di grandi ideali per la difesa di un’identità.

La seconda prospettiva del Kurdistan arriva da Linda Dorigo, fotografa e giornalista che si occupa di Medio Oriente e che sta lavorando ad un progetto di lungo termine sull’identità curda. “Mi sono trovata nella Siria del nord-est nel gennaio del 2014, e mi sono trovata probabilmente per puro caso ad assistere all’autoproclamazione di autonomia da parte dei curdi rispetto a Damasco”. Questo momento storico ha scatenato un interesse ancora più marcato sull’identità curda, sull’identità di un popolo diviso tra diversi stati nazione e “mi sono chiesta ma come vedono i curdi dell’Iran, dell’Iraq o della Turchia queste celebrazioni? Cosa pensano?”. Linda Dorigo continua a raccontare che da quel momento sono iniziate in lei molte domande, attraverso le quali voleva capire se esiste nella realtà una sorta di filo comune che lega queste comunità.

Cercando di capire fino in fondo cosa significa la parola “identità” per questo popolo, Linda Dorigo si è imbattuta in molte storie, “ho iniziato a coinvolgere gli stessi curdi chiedendo loro di auto raccontarsi”, lasciando così parlare i protagonisti del suo reportage, della sua ricerca. Racconta, poi, la storia di Kine Em, una ragazza poco più che ventenne: “Kine Em è un nome strano, è un nome che non suona, è un nome originale, tanto che il padre di Kine Em, un nazionalista curdo, si è sempre rifiutato di dare un nome turco a sua figlia, e quindi si è inventato questo nome dicendo alla figlia ‘Kine Em, non ti preoccupare, se un giorno ti prenderanno in giro tu devi dire che ti chiami come il fiore che cresce solo nel nostro villaggio’ ”. Per anni Kine Em cresce convinta della storia che le aveva raccontato il padre, fino a che “un giorno in una manifestazione a Istanbul in cui tutti urlano ‘Kine Em, Kine Em’, che in curdo significa ‘chi sono?’, quindi una fortissima rivendicazione idenditaria. E da lì capisce molto della propria famiglia”, del proprio villaggio, e della propria storia, che si trova nel sud est della Turchia, nella parte kurda, e dove i diritti di questo popolo vengono quotidianamente calpestati.

Soran Ahmad, segretario generale dell’Istituto Internazionale di Cultura Curda, di origine curda, offre un altro punto di vista sull’identità curda, in questo caso vissuta direttamente e dall’interno. In particolare vuole sottolineare come, fin dall’inizio del 1900 l’occidente sia complice della divisione del Kurdistan, che impone il concetto di stato nazione e cerca di eliminare i curdi perché “sono in più. E in qualche modo ereditiamo qualcosa dall’occidente e ne paghiamo il prezzo da allora fino ad adesso”. Si sofferma poi sull’importanza della laicità e del ruolo della donna nella cultura curda, sottolineando in particolare che la prima sconfitta nei confronti dell’ISIS è avvenuta grazie alle miliziane dell’YPJ (Unione di Protezione delle Donne), utilizzando questo elemento per comunicare l’importanza dell’identità forte del popolo curdo, delle sue tradizioni e della sua storia.  Ad Ahmad viene poi posta una domanda sulla questione della divisione interna tra i curdi divisi tra i diversi stati, e lui risponde che non vede una divisione così profonda, ma che dove ci sono politica, potere ed economia, purtroppo, ci sono sempre delle divisioni, e dove ci sono soldi e petrolio la corruzione è spesso di casa e noi non dovremmo andare oltre a questo.

Interviene infine Claudio Locatelli, ex combattente Ypg (Unità di Protezione Popolare) ed esperto di Siria e di questioni internazionali. Condivide la sua esperienza con il pubblico per iniziare a raccontare decide di partire dal concetto di “amicizia tra i popoli. L’amicizia che noi abbiamo cercato di dimostrare al popolo curdo non è solo l’amicizia verso un popolo, ma è qualcosa di più”, facendo riferimento agli attentati avvenuti per mano dello Stato Islamico in Europa, Locatelli afferma che lui e chi come lui si è arruolato con le milizie curde, hanno sentito il dovere di impegnarsi in qualcosa che riguarda tutti noi, “oltre l’impegno per il popolo curdo, ma con il popolo curdo, che è oppresso e in una situazione complicata da diversi decenni”. Le motivazioni che hanno portato le persone come Claudio Locatelli ad andare a combattere sono diverse, ma sicuramente tutti hanno sentito di avere un dovere, “il dovere di non restare a guardare”. Quello per cui si combatte è un modello nuovo, un modello di cambiamento.

Locatelli cita infine Lorenzo Orsetti, combattente italiano arruolato con l’Ypg che ha perso la vita lo scorso marzo dall’ISIS a Baghouz, in Siria, raccontando come si sono conosciuti sul campo e come lui dimostrasse il suo senso del dovere verso i popoli oppressi e verso una guerra che non è quella di qualcun altro, ma è quella del mondo in cui viviamo tutti. E conclude “per me la battaglia non finisce sul campo di battaglia, un proiettile non serve a niente se non c’è un supporto interno, un senso di resistenza, un senso di comunità internazionale. La battaglia si vince impegnandosi e collaborando. Infatti Lorenzo ha già valicato i confini della morte, perché vive in tutte le persone che ispirate dal suo sacrificio lo porteranno avanti quotidianamente. E badate bene: non parlo del kalashnikov, quello è l’ultimo, estremo elemento di difesa ma è quello che tutti voi, tutti noi, possiamo fare quotidianamente per questo mondo”.