La dura sopravvivenza dell’obiettività nel giornalismo

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Viviamo in un’epoca in cui il filtro messo in atto dai media è sempre più relativo, tutti abbiamo la possibilità di pubblicare con pochi click contenuti che a loro volta sono potenzialmente accessibili gratuitamente per miliardi di persone. Questo è il punto di partenza del panel intitolato “La fine dell’obiettività del giornalismo” tenutosi venerdì 8 aprile alla decima edizione del Festival del Giornalismo di Perugia.

Secondo Charlie Beckett, direttore di Polis – progetto della London School of Economics rivolto a studiosi, ricercatori e professionisti del settore – e autore del libro Wikileaks. News in the networked era, “l’oggettività nella sua forma più pura non è mai esistita” ci si sta sempre di più spostando verso la soggettività. Le persone vogliono l’oggettività dei fatti, ma allo stesso tempo consumano e condividono le notizie in un modo sempre più soggettivo”. Dan Gillmor, professore di Digital Media Literacy and Entrepreneurship presso l’Università di Giornalismo e Comunicazione sui Mass Media dell’Arizona, si schiera apertamente contro un modello di giornalismo che non vuole dare giudizi: “prendere nota e riportare esattamente ciò che viene detto non è giornalismo, ma è stenografia” e pone al centro della discussione il concetto di trasparenza considerato come la nuova oggettività. La competenza giornalistica è un altro concetto di cui non si può fare a meno: “tutto ciò che mi importa sapere sulle fonti di informazione che seguo si trova rispondendo alla domanda ‘Questa persona sa di che cosa sta parlando?’ Se la risposta è positiva, avere la stessa opinione diventa di secondaria importanza”.

Per Mathew Ingram, giornalista per Fortune Magazine, oggettività significa soprattutto essere in grado di pensare criticamente e capire innanzitutto da dove provengono i contenuti che leggiamo ogni giorno; d’altra parte, anche la soggettività è importante e si spiega in quali persone decidiamo di affidarci per leggere il mondo che ci circonda: “se succede qualcosa di clamoroso preferisco fidarmi, e, di conseguenza, leggere articoli scritti da giornalisti che erano sul posto e hanno scritto in prima persona dei fatti che avevano sotto agli occhi. Se qualcuno era presente c’è molta più probabilità che la qualità dei contenuti sia migliore. Dobbiamo sapere a chi interessa verificare le fonti e a chi non interessa, noi giornalisti siamo importanti perché dobbiamo creare fiducia coi nostri lettori”. In ultima analisi auspica “una soggettività più autentica piuttosto che un’oggettività di bassa qualità”.

Anna Masera, public editor de La Stampa, sottolinea la necessità di dare più spazio alle analisi e meno alle emozioni: “abbiamo bisogno di giornalisti lucidi che ci aiutino ad analizzare e capire che cosa succede”, ma allo stesso tempo non crede che sia responsabilità unica dei giornalisti la scarsa attenzione per i musulmani che muoiono ogni giorno, quando ci sono delle lacune nella copertura di eventi considerati lontani per il mondo occidentale. La redazione della Stampa sta lavorando con il progetto Trust, iniziativa parzialmente finanziata da Google, per rendere le notizie online più credibili basandosi sui concetti di accuratezza, trasparenza e inclusione, sviluppando allo stesso tempo un nuovo approccio allo storytelling. Il prototipo del progetto permette ai lettori di approfondire il lavoro giornalistico di ogni autore cliccando sulla sua firma in calce all’articolo: nel dettaglio viene indicato il metodo di raccolta delle fonti, i vari livelli di controllo che un articolo deve superare prima di essere pubblicato, l’identità di tutti coloro che fanno parte della catena di produzione e la massima trasparenza sulle informazioni che li riguardano. Una struttura simile a quella della principale enciclopedia on-line Wikipedia che ha l’obiettivo di dare al lettore maggiori strumenti di conoscenza per valutare il reale peso e la credibilità di un articolo o di un reportage, valorizzandolo rispetto alla mole infinita di informazioni spesso caotiche disponibili sui social e sul web.

Alcuni dubbi riguardo all’oggettività nel giornalismo sono arrivati da Yasmin Alibhai-Brown, giornalista ugandese dell’Independent trasferitasi nel Regno Unito nel 1972 e che dunque continua a guardare la realtà con la prospettiva di un cittadino del terzo mondo che vive nel mondo occidentale. In momenti di alto panico come la guerra contro il terrore in cui siamo coinvolti “il giornalismo fa molta più fatica a distanziarsi dal potere. Dobbiamo chiedere a noi stessi da dove provengono gli articoli che leggiamo e quali sono le storie su cui dovremmo scrivere e che ci piacerebbe leggere. Io non voglio essere leale col mio paese, non voglio essere leale con l’Occidente o l’Oriente. Credo che tutti dovremmo essere sleali” Alibhai-Brown da cittadina musulmana sciita critica inoltre la troppa facilità con cui viene spesso descritta da media a lei culturalmente lontani “Sono orgogliosa di essere una cittadina musulmana che vive in Occidente, ma non posso più scrivere contro Israele senza essere accusata di essere antisemita”. In chiusura Ingram suggerisce di prendere l’oggettività come stimolo per i giornalisti a dare del loro meglio nel produrre lavori di qualità: “l’oggettività non è una questione a due vie”.