La filosofia della relazione: il giornalismo del racconto di Domenico Iannaccone


Nella penultima giornata del Festival internazionale del Giornalismo di Perugia, la Sala dei Notari ha accolto Domenico Iannacone, che dal 2013 conduce il programma d’inchiesta I dieci comandamenti ,in onda su RaiTre. Proprio a partire dal programma d’inchiesta, il giornalista e autore molisano ha condotto un’attuale riflessione sul giornalismo moderno, sull’evoluzione della professione e sulle scelte spesso adottate dai giornalisti per fare notizia a partire dalla cronaca.

“Il mio modo di raccontare deve essere relazione”

“Comincio nel dire che io non mi sento completamente giornalista, o per meglio dire mi sento giornalista, ma non soltanto giornalista. Troppe contaminazioni ci sono state nel corso di questi anni rispetto alla mia persona per potermi definire giornalista puro”: sembra strano sentire queste stesse parole da Domenico Iannaccone che, come lui stesso rivela, ha strutturato la propria formazione grazie a grandi poeti del panorama italiano nel Novecento, tra cui Giorgio Caproni, Mario Luzi e Attilio Bertolucci. Eppure, in realtà, questo è stato solo il primo passo per compiere un percorso di autonomia, consapevolezza e onestà intellettuale di cui ha beneficiato durante la sua decennale carriera: “In quella fase mi sono nutrito della parola, ho capito che quella roba lì mi avrebbe permesso di fare un mio percorso, di trovare la mia poetica del racconto”.. Questa consapevolezza è arrivata con la necessità di giungere al cuore dei contenuti, mantenendo l’essenzialità di cui il contesto storico aveva bisogno in nome di un unico obiettivo: la verità. “Con I Dieci Comdamenti ho deciso di fare una rivoluzione, ma non lo era, ho deciso di prendere in mano i tempi di una tv che non si faceva più, in un’epoca molto accelerata, fatta di tagli in asse, di vocali tronche, di elementi raccordati, appiccicati. Avevo bisogno di trovare la densità di quello che succedeva, del racconto”. Proprio questa forte esigenza gli ha permesso di creare una narrativa più dialogica, a tratti empatica con i differenti interlocutori: uno stile che lo contraddistingue, basato anche sull’ascolto. Durante il one man show, condotto da Iannaccone con l’ausilio di contributi video del programma di RaiTre, non sono mancati attacchi contro i giornalisti che non creano un legame di ascolto reciproco con l’interlocutore: “Io non apprezzo qualche collega che non ascolta la risposta, già sta pensando mentalmente all’altra domanda che deve fare, è un’interruzione, significa che quella relazione non si creerà mai, è evidente, è palese quell’incompletezza”.

Da Presadiretta a I Dieci Comandamenti: il giornalismo del racconto

“Il giornalismo è fatto di comunicazione”. È così che Domenico Iannaccone ha esordito, ricordand0 le tappe di una carriera vissuta sul campo e, soprattutto per I Dieci Comandamenti, un progetto iniziato grazie a un’intuizione: “La cosa bella di questo programma è che io ho avuto quella che nel cinema si chiama un’idea dominante, un’idea che sta alla base di un film. Ce l’ho avuta ben chiara fin da subito, ma non mi sono spostato da lì. Avrò fatto aggiustamenti stilistici, però la densità è rimasta intatta. Questa cosa mi fa comprendere che quando c’è un’idea precisa di quello che si vuol fare, questa cosa regge”. Nonostante questo però, l’evoluzione deel rapporto tra la società e i mezzi di comunicazione di massa gli ha permesso di modulare i propri contenuti in base al pubblico, alle esigenze e alla voglia di arrivare a un bacino di spettatori sempre più ampio, a cui raccontare anche quello che non vogliono sentirsi dire. “Succede che la televisione è finita sul web a un certo punto, anche quella che poteva sembrare più lenta come poteva sembrare la mia e questa cosa ha amplificato la forza del racconto. Oggi io sono più forte perché questo progetto arriva a più persone contemporaneamente”.

Il giornalista: storia di una professione che si trasforma

“Si riesce a incidere. Se la funzione del giornalista è asettica, che racconta e basta, non ha valore. Non c’è bisogno dello scoop, c’è bisogno di raccontare le storie minime, di avvicinarsi a piccolissimi pezzi di realtà e su questi impegnarsi per incidere. Questo dovrebbe farlo anche la politica: si parla tanto di manovre, quando poi ci sono bisogni minimi che potrebbero essere risolti con un impegno anche minimo, ma che nessuno riesce mai ad affrontare”. Il bisogno di semplicità emerge con evidenza dalle parole di Domenico Iannaccone, pronto a riconfigurare una professione complessa partendo proprio dal metodo: “Ho affrontato questo lavoro, utilizzando il metodo socratico, la maieutica del racconto: io sono come una levatrice che va in un posto, entra, lascia parlare e lascia che la verità emerga, senza forzare mai”. Questo bisogno, spesso empatico, gli ha permesso di crescere professionalmente senza dover far leva sulla spettacolarizzazione della cronaca: “Se andiamo a guardarci attorno, scopriremmo che c’è una realtà variegata e la modalità del suo racconto è difforme. In questi anni ho imparato, cercato e voluto raccontare la realtà in tutte le sue declinazioni”. Fare questo rimanendone estranei è stata la sfida più grande: “Mi è rimasto dentro, fu un racconto immersivo, ma ci sono finito dentro, sono stato risucchiato da quelle cose”.

Una sfida quotidiana: la realtà partecipante

Qual è il limite tra il racconto orientato a informare i propri spettatori e il desiderio di farlo a qualsiasi costo pur violando spesso le fragilità e le difficoltà del singolo? “Si incide in qualche modo, ci si prova, bisogna sperare altrimenti che cosa raccontiamo, raccontiamo il dolore e poi? Spremiamo i limoni e poi li buttiamo? È un po’ così la professione, come quella dell’ufficiale giudiziario: entra, guarda, prende quello che deve e poi se ne va via. I danni, la solitudine, il dolore restano”. Un equilibrio precario che ha lasciato spazio anche a una presa di coscienza inelutttabile da parte del giornalista: “Capisci che attorno a noi c’è una marea incredibile di gente che non parla più, non dice più nulla, è in silenzio. Non è soltanto una questione di telefonini, è una questione di solitudine, di sentirsi soli”. La vera trasformazione è arrivata con la scelta di non rimanere estraneo alle storie che raccontava, ma viverle in prima persona: “Per un pezzo del mio racconto sono andato a intercettare quelle persone, mi sono piaciute solo quelle persone. L’ho fatto perché lì trovavo quella dimensione, quella relazione. Potevo specchiarmi, finire nei loro occhi, toccare. Mi sono ispirato a un metodo sociologico americano: la realtà partecipante. Una scuola di sociologi  negli anni 30 decise che bisognava andare in un posto, finirci dentro, confondersi e raccontare perché così comprendi  meglio. Se entriamo in un posto e rimaniamo a distanza di sicurezza, quel posto non lo capiremo mai. Ci dobbiamo sporcare le mani. Questo ci consente di avere una prospettiva diversa. Il racconto, se non è contaminato è più vero. La verità sta al centro”.

“Si può raccontare anche quello che non si vede”

“Per un po’ di anni ho utilizzato all’inizio le telecamere nascoste, non le voglio più vedere: è un atto sleale, vile, rapina qualcosa, magari mistifica, prende una debolezza che non è la verità”.  Ci vuole una forte determinazione nel decidere consapevolmente di non trasformare in notizia tutto ciò che fa leva sulle difficoltà del singolo. Lo sa bene Domenico Iannaccone che, durante la sua carriera, ha scelto consapevolmente di abbandonare questo modus operandi per intraprenderne un altro: quello dell’osservazione attenta senza il bisogno di ricorrere alla spettacolarizzazione delle fragilità. È stata una scelta complessa e deontologicamente controversa: porta a rispettare una sfera intima dell’interlocutore, lasciando sfumare la possibilità di renderla parte integrante della notizia. Un valore aggiunto che permette di scegliere fin dove arrivare nel compiere la propria professione con trasparenza e integrità: “Se noi ci poniamo il limite, poi diventa contaminante nel bene, sappiamo riconoscerlo, ne troviamo prova”.

Recounting reality: Italy of the Ten Commandments

Una riflessione su attualità e dimensione spirituale, cercando un punto di vista che vada al di là della pura cronaca o della prospettiva quotidiana, raccontando il paese che siamo e che spesso preferiamo non vedere. Con Domenico Iannacone, conduttore della trasmissione di successo I dieci comandamenti (Rai 3).

Pubblicato da International Journalism Festival su Sabato 6 aprile 2019