
Oltre al panel Da grande voglio fare il freelance, Barbara Schiavulli partecipa al Festival Internazionale del Giornalismo presentando, insieme a Maria Gianniti, il libro La guerra dentro, suo ultimo lavoro. Dopo aver raccontato il Medio Oriente (e non solo) adottando il punto di vista dei civili, l’autrice propone nel testo una nuova narrazione del conflitto. Attraverso le storie di dieci militari italiani, il colpo d’occhio cambia: la guerra è raccontata direttamente da chi la fa. Per questo, La guerra dentro segna una cesura non solo nei confronti di come frequentemente i giornali affrontano i conflitti ma anche rispetto ai precedenti lavori della stessa Schiavulli, che aveva preferito fino a quel momento il punto di vista di chi, invece, la guerra la subisce.
Dopo avere raccontato la guerra dalla parte dei civili, la racconti ora utilizzando il punto di vista dei militari. Quali sono le ragioni del cambiamento?
Quando si racconta la guerra, si cerca di raccontarne ogni aspetto. Questo può significare parlare dei civili come della diplomazia o della politica. E uno degli aspetti della narrazione di un conflitto è costituito dalle storie dei militari. Parlare di loro non solo quando muoiono – l’unico aspetto trattato dai giornali – ma parlare, per esempio, di cosa possa significare per un soldato vivere una missione. Del racconto di una guerra, a me interessano le persone. Per me la guerra si racconta attraverso le singole storie ed emozioni di chi la vive, che sia un civile o un militare.
Cosa aggiunge un lavoro come La guerra dentro, al quale ti sei dedicata per tempo prolungato, a un lavoro giornalistico svolto in tempi più brevi?
Vivere una storia per più tempo è sempre positivo. Inoltre, superare le richieste dei giornali consente di soddisfare le esigenze che i lettori hanno e che i giornali non riescono a intercettare. Penso a quello che dovrebbe significare fare esteri. Oggi, se ne scrive e se ne parla sempre meno. E se il giornalista pensa che non sia stato scritto tutto quello che il lettore dovrebbe sapere, deve trovare altri modi per farlo. Un documentario, un libro.
Cosa significa essere giornalisti freelance oggi?
A un giovane consiglierei di andare via. È vero che la crisi che ci ha travolto ha travolto anche gli altri paesi europei. Ma questi hanno adottato un filtro qualitativo che permette a chi ha capacità di andare avanti. In Italia, non essendo accaduto, è diventato molto difficile. Quando ho iniziato, il lavoro da giornalista era ancora dignitoso. Adesso la situazione si è complicata. Io stessa mi sto avvicinando a nuovi progetti, alla letteratura. Raggiungere il lettore con nuovi progetti perché con i giornali è quasi impossibile farlo. Se avessi proposto a un giornale una delle storie raccontate nel libro, non avrei suscitato alcun interesse.