La questione Lgbt al Festival: l’intervista ad Annamaria Testa

Ph. Stefano Gizzi
Ph. Stefano Gizzi

Che la pubblicità sia conservatrice, e che lo sia soprattutto in Italia, è evidente. Linguaggio e immagini contribuiscono alla creazione e alla sedimentazione di rigidi stereotipi di genere. Alla donna, che può essere solo o moglie o corpo sessuato, risponde un modello di mascolinità ugualmente fittizio. La figura femminile, rigorosamente giovane e mai cinquantenne, richiama un modello maschile sempre al di qua del mezzo secolo di età. In questo senso, le immagini costituiscono una potente arma di disempowerment: rappresentare i soggetti come personaggi senza complessità implica ridurli a figure prive di agency e limitare la loro capacità di azione consapevole. E, al linguaggio pubblicitario, non sfugge neanche la rappresentazione della famiglia. Presentato nella sola forma occidentale ed eterosessuale, il modello familiare è sottoposto a un costante processo di normalizzazione che non tiene conto delle differenze proprie della struttura sociale.

Parliamo di linguaggio. Ritiene che l’espressione Lgbt sia adeguata?

La questione linguistica è centrale. I nomi con cui chiamiamo i fenomeni contribuiscono a determinare la loro percezione. Credo che indicare l’universo lesbo-gay-bisessuale-transessuale attraverso l’espressione Lgbt – quindi attraverso un acronimo, una sigla opaca e poco chiara – sia il massimo della burocrazia e della divisione. Si rivela poco efficace in termini di identità positiva e poco adatto alla costruzione di un immaginario energico e condiviso. Trovare un nome che esprima unità e identità in maniera più adeguata e attraente non è un aspetto secondario e sarebbe interessante, a partire da questo, che si aprisse un dibattito su uno strumento che metta a sistema le relative organizzazioni.

Il linguaggio pubblicitario causa un appiattimento delle differenze che sono, invece, ben evidenti nella realtà della struttura sociale. Cosa si può fare per farle nuovamente emergere?

Come ho recentemente sottolineato nell’ultimo congresso dell’UPA – Utenti Pubblicitari Associati –, la scommessa del futuro è superare gli stereotipi che intrappolano l’arte e la creatività pubblicitaria attorno a figure sempre più schematiche, meno credibili proprio perché scollate dalla realtà. Noi abbiamo una sola tipologia di madri, una sola tipologia di padri, un solo immaginario relativo ai bambini. Non esistono altre rappresentazioni, non esistono le differenze proprie della vita sociale. Riportare un po’ di vita nella pubblicità – e alcuni esempi esteri lo hanno già dimostrato, si pensi alla campagna Procter & Gamble sulle madri – potrebbe essere segnale di cambiamento. Lo stesso discorso si applica al mondo Lgbt, che potrebbe essere rappresentato nella sua interna e variegata creatività.

La capacità di riconoscere gli stereotipi, per poi poterli superare, dovrebbe essere impartita sin dalla prima formazione?

Non se ne può parlare in maniera così rigida. La questione è più complessa. Si deve definire un senso critico, da applicare tanto alla pubblicità quanto al mondo dell’informazione, che è anch’esso strutturato secondo un preciso modello di persuasione, basti pensare alla forma della presentazione delle notizie. La capacità critica sarebbe compito anche della scuola e della famiglia, ma non può diventare un argomento unicamente scolastico.

Un gruppo di studenti dell’organizzazione Lotta studentesca è stato autore di un blitz omofobo al Liceo Giulio Cesare contro la lettura del romanzo Sei come sei di Melania Mazzucco.

Un evidente segno di sprovvedutezza e stupidità. Ho anche pensato che la vicenda potrebbe essere stata eccessivamente montata. Forse qualche volta una risata, l’ironia, funzionerebbe meglio. Come hanno fatto negli ultimi giorni alcuni calciatori mangiando la banana: un lungo documentario sul razzismo non avrebbe avuto lo stesso effetto. A volte bisogna tornare alla semplicità dei gesti.

Marta Facchini @FacchiniMarta