Lo scorso dicembre il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicò un lungo articolo di scuse ai propri lettori. Uno dei suoi collaboratori, il pluripremiato giornalista d’inchiesta Claas Relotius, ha ammesso di aver inventato per anni a tavolino i propri articoli, citando fonti inesistenti e saltando fondamentali passaggi di verifica dei fatti. Questo è il punto di partenza dell’appuntamento che ha visto quattro giornalisti confrontarsi nel pomeriggio venerdì 5 aprile, nella Sala Brugnoli di Palazzo Cesaroni al Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia.
Jeff Jarvis, della Craig Newmark Graduate School of Journalism di New York, sottolinea la necessità di portare la riflessione al tema più generale dello storytelling e dei rischi che può comportare. “Come docente di giornalismo, è un’eresia per me essere seduto qui a mettere in discussione il valore dello storytelling come nostro compito e arte primaria. Per fortuna sono molto lontano da casa” ironizza lo stesso Jarvis. La sua riflessione parte dal libro di Alex Rosenberg, della Duke University, intitolato: “How history gets things wrong – The neuroscience of our addiction to stories”, dove l’autore spiega come la neuroscienza abbia smentito la teoria della mente e come sia assurdo continuare oggi a pensare di poter comprendere le mosse altrui. “Eppure – spiega Jarvis – non smettiamo di sostenere che sia possibile comprendere le ragioni che muovono l’agire umano e che sia possibile racchiudere il tutto in una narrazione”. Il professore americano coglie il fatto che al giorno d’oggi siano presenti i germi di una “una crisi del sapere umano, c’è un mondo che crediamo di poter spiegare, ma non possiamo”. Lo scandalo Der Spiegel ha portato alla luce alcuni rischi del metodo narrativo che non possono essere tralasciati. La nostra mente, spiega Jarvis, è abituata a racchiudere i fatti in un percorso definito, con delle tappe precise. Nelle storie, inoltre, “vogliamo anche trovare vittime e cattivi, e siamo noi a decidere chi è chi”. Continua poi affermando: “controllare la narrazione nutre il nostro ego e il nostro modello di business, il cui obiettivo è attirare l’attenzione di un pubblico”. Quando si tratta di attirare l’attenzione di un pubblico, “cosa può esserci di meglio dei toni di un racconto?”. Per ridurre i rischi che questo impianto può portare nel rapporto tra chi divulga contenuti e chi ne è destinatario, Jarvis ritiene importante iniziare ad introdurre nel giornalismo le conoscenze dell’antropologia e il relativo metodo, che insegna prima di tutto ad osservare e ascoltare.
Sul caso di Claas Relotius, Tanit Koch, caporedattride della Central Newsroom RTL, non ha dubbi: si è trattata di una frode e dichiara di non aver mai incontrato un caso di tale portata. “Dopo lo scoppio dello scandalo – racconta – numerose critiche provenienti dal mondo dei media hanno investito proprio l’articolo del Der Spiegel che denunciava quanto accaduto. Il pezzo in sé aveva una struttura narrativa particolare, quasi simile a quella di un thriller”. Inoltre Tanit Koch continua affermando che “se vuoi raggiungere il maggior numero di pubblico, o di lettori con un articolo che riguarda proprio un tuo fallimento, devi farlo in modo da attirare il maggior numero di persone: lo Spiegel ha scelto un determinato stile narrativo per raggiungere quanti più lettori”. Swantje Dake lavora per il Stuttgarter Zeitung, una realtà editoriale locale e la reazione allo scandalo del settimanale tedesco nella sua redazione è stata di sgomento: “noi siamo un giornale locale e cose come questa non dovrebbero succedere qui”, anche se questo ragionamento è sbagliato, perché qualsiasi cosa può accadere ovunque.
Tornando al tema dello storytelling nel giornalismo, Jay Rosen, della Arthur L. Carter Journalism Institute NY University, dice di avere un’opinione alquanto impopolare al riguardo: “se non vi piace quello che ho da dire, mettetevi in fila!”, ironizza. Il cuore dell’attività giornalistica non sta nello stile narrativo, ma le due colonne portanti per Rosen sono invece la cronaca e la discussione sui fatti. “Le discipline in cui i giornalisti sono esperti, dal mio punto di vista, sono le operazioni di verifica, non lo storytelling. Se guardate a molti testi scritti da giornalisti, infatti, hanno un contenuto scarso dal punto di vista della narrativa, per esempio in molte ‘storie’ tipiche non si riesce ad individuarne un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Spesso manca totalmente la suspance, perché ci viene insegnato di dare le notizie più importanti nelle prime righe. Immaginate se funzionasse così anche ad Hollywood!”.
Rosen racconta poi che negli Usa si è verificato un evento per certi versi simile a quello che ha colpito lo Spiegel. La rivista Rolling Stone ha pubblicato un reportage riguardo a uno stupro di gruppo e testimoniando, più in generale, una vera e propria abitudine alla violenza sessuale nei campus universitari dello stato del Virginia. Il tutto si è poi rivelato probabile frutto di invenzione. La cosa sorprendente, spiega Rosen, è che l’indagine è partita come un racconto narrativo e solo dopo si è cercata una storia che la potesse confermare, anche se dovrebbe essere proprio il contrario. “Ma in fondo il mondo in cui Rolling Stone ha affrontato questo pezzo corrisponde a come viene fatto giornalismo in altri posti: credo che questa sia una delle conseguenze di questo culto della narrazione, che alimenta una visione di sé pretenziosa e ostacola il buon giornalismo.” Per Tanit Koch il problema non è tanto lo storytelling in sé, ma la scarsa apertura mentale con cui si approccia una narrazione: “il cronista cerca conferme alle teorie che ha già costruito nella sua testa e, consapevolmente o meno, ignora tutto ciò che non le conferma.”
Relotius nella sua carriera aveva vinto degli importanti riconoscimenti per i suoi lavori, ma qual è l’influenza che i premi esercitano nel mondo del editoriale? Swantje Dake sottolinea come la cosa più importante per un giornalista sia chiedersi per chi sta scrivendo il pezzo: “lo fai per te stesso? Per i tuoi superiori? Per i tuoi colleghi? O per i lettori? E se si pensa ai lettori, non dovresti scrivere una storia come uno storyteller”. Tanit Koch nella sua esperienza come giurata nelle commissioni di alcuni premi giornalistici si è chiesta come mai non concorrano molti pezzi provenienti da giornali locali. La mancanza di ingenti risorse umane, di tempo e di denaro sicuramente incide, ma il nocciolo delle storie che raccontano è valido e supportato da fatti solidi, sebbene non così curato nella narrativa come i pezzi che ricevono più riconoscimenti.
Il tema dei premi nel giornalismo continua quando la discussione si apre al pubblico della sala Brugnoli. “I giornalisti hanno tutti un grande ego”, esordisce Dake in risposta a una domanda in merito alla seduzione del prestigio professionale. “Vogliono scrivere una storia che porti il loro nome”, anche se “quando si cerca di metterli in contatto con i loro lettori, cosa resa sempre più facile e immediata grazie all’evoluzione digitale, sono i primi ad essere impauriti”. In merito alla pressione che talvolta viene invocata a giustificazione di certi atteggiamenti, in nome dell’avanzamento di carriera, Koch invita ad usare i piedi di piombo. “La nostra professione – precisa – non va considerata come l’unica che mette le persone sotto pressione, un chirurgo è sempre sotto pressione”. La volontà di fare carriera e la vanità possono “motivare le persone a fare il loro meglio, ma l’ego non deve prendere il sopravvento. Quello che facciamo e per chi lo facciamo, cioè il pubblico, è sempre più importante della nostra posizione personale.”