Lucia Capuzzi: capire la magia dell’America Latina e raccontarla

Foto: Danila D'amico
Foto: Danila D’amico

In occasione del panel Messico: la sanguinosa guerra tra Stato e cartelli della droga e i suoi legami con l’Italia abbiamo intervistato Lucia Capuzzi, giornalista della sezione esteri per Avvenire.

Una laurea in scienze politiche all’università d’Urbino, un dottorato di ricerca in “Storia dei partiti e movimenti politici”, poi il primo libro La frontiera immaginata nel 2006 che racconta l’immigrazione italiana in Argentina. Nel 2010 la seconda pubblicazione Haiti: il silenzio infranto. Tra un libro e l’altro, la decisione di diventare giornalista e occuparsi di esteri: cosa l’ha spinta a fare questa scelta?

“Sono stati gli anni fondamentali della mia vita. La frontiera immaginata può essere considerato la fine di un percorso di studio, al termine del quale ho capito che volevo fare di più: scrivere per un pubblico e raccontare qualcosa. Credo che i giornalisti siano gli storici di oggi, quelli che cercano di  raccontare cosa succede nel mondo e farlo conoscere a più gente possibile. In fondo credo che la professione che svolgo sia molto affine con gli studi che ho fatto”.

Argentina, Haiti, Cuba (Adios Fidel, 2011), Colombia (La guerra Infinita, 2012), Messico (Coca rosso sangue, 2013). Ha fatto dell’America Latina il suo “campo di battaglia”, come dimostrano i libri da lei pubblicati. C’è un particolare della cultura di questi luoghi che ha riscontrato in tutti i paesi?

“Parlo da innamorata di questi luoghi, quindi potrei non essere obbiettiva. Credo che le caratteristiche fondamentali di questa parte di mondo siano due: la normalità dell’insicurezza e la magia che la circonda. Per un europeo può essere difficile da accettare, soprattutto la prima che ho detto. Le racconto un aneddoto: mi trovavo in un aeroporto di Tunja piccola cittadina spersa nel centro della Colombia. Il volo che dovevo prendere fece un ritardo di sei ore: nessuno era preoccupato tranne me. Quello che mi sorprende sempre è la tranquillità con la quale i latinoamericani sanno accettare che le cose non siano perfette”.

In Coca rosso sangue racconta la storia dei cartelli messicani e le implicazioni del narcotraffico con le organizzazioni criminali europee, tra le quali l’Ndrangheta. Questo tema viene affrontato anche da Roberto Saviano nel suo ultimo libro Zero Zero Zero. In particolare nell’ultima parte del libro l’autore racconta di come i soldi del narcotraffico abbiano salvato l’economia mondiale e gli istituti bancari nel 2008. I libri di Saviano hanno spesso diviso l’opinione pubblica, alcuni credono che le sue storie siano troppo romanzate. Lei cosa ne pensa? Il narcotraffico e l’introito che pervade a fondo il nostro sistema economico può essere sconfitto in qualche modo?

“Apprezzo tantissimo il lavoro di Roberto Saviano e di chi tenta di raccontare questa storie e diffonderle a un vasto pubblico. La gente deve conoscere: è l’unico modo per de-incentivare l’uso della droga e combattere realmente il narcotraffico. I soldi della droga e dei cartelli messicani sono valore liquido: ecco perché le banche distrutte dalle speculazioni finanziarie nel 2008 si sono affidati a questi per sopravvivere. Saviano usa uno stile romanzesco, è normale che alcune storie che racconta siano “esagerate”. Bisogna conoscere cosa comporta a livello sociale la coca nei paesi in cui avviene la produzione: corruzione e lotta selvaggia per la sopravvivenza, distruzione di vite umane e guerra. La cocaina che consumiamo nelle discoteche occidentali è bianca: ma quando ognuno di noi la tira dovrebbe pensare che quello che consuma è macchiato di rosso, il sangue di tantissime persone morte per il nostro divertimento. La cocaina è la droga di questi tempi – come l’eroina lo era negli anni ’80, dove per emergere devi essere veloce, rapido, lucido. È tutto un gioco di mercato: questa è omologazione non trasgressione. Il narcos è la deriva del capitalismo spinto: arriva a considerare tutto quello che compone un uomo come merce e perciò come un possibile ricavo. È giusto per il proprio divertimento, per una serata, permettere che succeda tutto questo?”

Cosa pensa della spettacolarizzazione mediatica del narcotraffico? Penso a fenomeni televisivi come Breaking Bad.
“Come ho già detto credo che raccontare queste storie sia importante, ma attenzione: il narcotrafficante non può e non deve diventare l’idolo, l’eroe. Ne parlavo ieri durante l’incontro: i giovani colombiani o messicani sognano di diventare narcotrafficanti come un giovane italiano sogna di diventare calciatore. Sono talmente ai margini di questo sistema economico che arrivano a considerare quella come unica via per entrare a farne parte. Bisogna fare attenzione ai messaggi che si diffondono e all’ipocrisia. Mi viene da ridere quando si parla di legalizzazione della marijuana per de-incentivare la lotta al giro di soldi della droga, quando in realtà è solo un modo per le grandi multinazionali americane di acquisire nuovi segmenti di mercato. Il tabacco non porta più i soldi di una volta.

Ci sono comunque ottimi prodotti mediatici che raccontano il narcotraffico, tra i quali mi sento di consigliare La gabbia dorata, un film che nel mondo occidentale non è stato diffuso e trasmesso come avrebbe meritato”.

Un’ultima domanda riguardo ai giovani giornalisti che vogliono diventare reporter oggi. Che consigli si sente di dare?
“Conoscere le lingue e soprattutto vivere i luoghi che raccontano. È inutile seguire solo i grandi eventi e scrivere reportage banali con stereotipi culturali di ogni genere. La storia dei luoghi è importante, bisogna studiarla a fondo per capire i fatti. Faccio un esempio banale: il Messico veniva da 60 anni di dittatura. Uno stato assente che pretendeva solo tasse, scordandosi delle persone e permettendo ai cartelli di espandersi. È così strano che ora ci sia una guerra permanente? Non  credo”.

Andrea Mularoni
@AndreaMularoni