Manning e gli altri whistleblower: storie di spie, eroi e traditori

1979, “007 Moonraker”: Roger Moore nei panni di James Bond e l’MI5 riescono a sventare il piano di un folle scienziato desideroso di reinventarsi Noè ai tempi di Star Wars, trasferendo i migliori esemplari della specie umana sulla luna ed eliminando gli scarti con il gas nervino. Il tutto, seminando il caos per Venezia a bordo di una gondola hoovercraft stracult, sconfiggendo un killer dagli evidenti problemi odontoiatrici (Squalo) e chiudendo con un ménage a bordo dello shuttle (“Io credo che sia in fase di rientro, Signore”, commenta ammirato Q, da terra).

2011, “Skyfall”: il nuovo 007 Daniel Craig osserva impietrito il suo capo, M, sconfiggere in cinismo un pericoloso criminale, interpretato da Javier Bardem, verso cui, poco prima, Bond si era profuso in un’inedita e non troppo velata allusione omoerotica.

Ecco quanto è cambiata nel corso degli ultimi trent’anni la nostra percezione dei servizi segreti: non più cavalieri senza macchia e senza paura, tutori dell’ordine precostituito e concilianti promotori dei valori occidentali, ma ambigui negoziatori sempre in bilico tra bene e male. Guardando all’ambito cinematografico, siamo di fronte a un tipico caso di “sindrome di Nolan”, in cui il nostro eroe è fondamentalmente buono, ma disposto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, secondo una propria, personalissima etica. Il discorso, a ben vedere, si presta però a una portata ben più ampia: quanto hanno contribuito i leak, le rivelazioni di materiale governativo secretato, a distruggere la nostra dicotomia tra buoni e cattivi? Una risposta l’hanno provata a fornire i relatori del panel “Manning e gli altri: traditori, spie o eroi? Media reporting e whistleblowing“, organizzato in collaborazione con CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili).

Qual è oggi la percezione dell’opinione pubblica rispetto ai whistleblower, alla luce dei casi Manning e Snowden? E quanto possono fare i giornalisti per informare in questo campo? Così come sono mutate le tecniche di spionaggio dai tempi raccontati ne “Le vite degli altri“, altrettanto profondo è stato il cambiamento nel mondo del whistleblowing nel corso degli ultimi anni.

Da un lato, osserva Annie Machon, ex-agente che negli anni ’90 denunciò i soprusi dell’intelligence britannica, l’avvento del digitale, ha reso immediatamente obsoleto lo spionaggio à la Le Carré. La tecnologia è, come spesso accade, un’arma a doppio taglio, che garantisce l’anonimato della fonte al momento della consegna del materiale ai giornalisti, evitandone il sequestro coatto da parte delle autorità, ma che aumenta esponenzialmente le possibilità di essere tracciati.

Parallelamente, sul frangente politico, ha ricordato Philip Di Salvo, direttore del sito italiano dell’Osservatorio Europeo di Giornalismo, si è affermata quella che Assange definisce “la religione della sicurezza nazionale”. Dal Patriot Act in poi, come hanno ben testimoniato le rivelazioni di Snowden sulle politiche dell’NSA, è stato messo in atto un sistematico controllo dei cittadini e dei loro movimenti sul web, giustificato dal nuovo mantra della sicurezza. Ben Wizner, consulente legale di Snowden, fa inoltre notare il paradosso di in un mondo ossessionato dalla privacy in cui cittadini e giornalisti abbiano permesso di scrutinare impunemente i propri dati ai governi da loro stessi eletti, i quali, mentre si procuravano gli strumenti, legali e tecnologici, necessari a farlo, si schernivano dicendo “fidatevi di noi!”.

Il punto fondamentale diventa quindi capire se le istituzioni siano effettivamente in grado di autoriformarsi dall’interno. A giudicare dal caso italiano, Antonella Napolitano di CILD non sembra fiduciosa: come già ricordato in un altro panel del Festival, non esiste un termine italiano neutro e condiviso per definire i whistleblower, mentre la proposta di legge in merito è bloccata in Commissione Giustizia. Oltretutto, la strada verso un Freedom of Information Act (FOIA) italiano sembra lunga, al di là dei facili proclami della politica. A proposito del rapporto tra politica e whistleblowing, però, aggiunge Wizner, è bene ricordare che molti dei leak che appaiono sui giornali ogni giorno non sono frutto di confessioni dall’interno delle organizzazioni stesse, ma piuttosto anticipazioni fornite dai politici stessi per i propri scopi. È anche per porre fine a questo fenomeno che è urgente una legislazione più specifica, che dev’essere richiesta, anzi, pretesa dalla società civile: ecco perché abbiamo bisogno di più whistleblower e “campaigning journalists”.

Entrano così in discussione le responsabilità dei giornalisti stessi, la scarsa attenzione riservata ai processi legali e alle conseguenze, umane ancor prima che economiche, che i whistleblower affrontano a seguito delle loro rivelazioni. Alexa O’Brien, giornalista investigativa che ha seguito attentamente il caso di Chelsea Manning, non se la sente di demonizzare l’informazione, nonostante sia un dato di fatto che gli Stati Uniti siano “esportatori netti di mass media”, e che possano influenzare l’opinione pubblica globale, la “narrazione” del whistleblowing. Basterà dare un’occhiata ai numeri. Dal 2013 a oggi, escludendo libri, articoli e pubblicazioni varie, sul caso Snowden sono stati girati 2 documentari e 1 film (ancora in postproduzione, diretto dall’immancabile, in questi casi, Oliver Stone). Assange in sé, al di là di WikiLeaks, è stato oggetto di un documentario e del controverso “Il quinto potere”, mentre ci sarà ancora da attendere per un lavoro comparabile sulla storia di Chelsea Manning. Due fatti emergono chiaramente: la profusione di produzioni hollywoodiane sull’argomento, nonostante l’impossibilità di accedere alle carte dei processi, e la differenza di visibilità tra i vari leak, in fin dei conti non dissimili tra loro.

Il caso Manning viene affrontato parzialmente perché “Manning mette in discussione gli stereotipi del nemico”, secondo O’Brien. E questa impossibilità a ricondurre ai canoni tradizionali la storia di un militare americano, divenuto prigioniero di massima sicurezza e, nel frattempo, Chelsea Manning, sembrerebbe la risposta definitiva alla scarsa copertura del suo caso e di quello degli altri whistleblower in genere.

Alla giustificazione ideologica e personale di questo fenomeno se ne accompagna però, necessariamente, una legale. Cosa possono raccontare i giornalisti di tutto il mondo, infatti, se gli atti processuali sono completamente secretati? Prendiamo il caso Manning: condannata a 35 anni di reclusione per l’accusa di spionaggio, nonostante si sia consegnata volontariamente alla giustizia, “nessuno sia stato danneggiato” dalle sue dichiarazioni (O’Brien) e queste ci abbiano permesso di conoscere “le ragioni della guerra in Iraq, le torture di Abu Ghraib, il programma di rapimenti della CIA” (Wizner).

Come ricorda Wizner stesso, “A volte c’è bisogno di un drammatico atto di violazione delle leggi” per rivitalizzare il sistema legale di una nazione: sarà paradossale, ma è proprio in quest’ottica che va ripensato il modo in cui vengono processati i whistleblower. Non è più pensabile ricorrere, come è accaduto nel processo Manning, all’Espionage Act, un documento del 1917 che non permette alla corte né di pesare i potenziali benefici ai cittadini dalle rivelazioni, né di mettere in discussione il criterio con cui i documenti sono stati secretati dallo stato stesso.

Occorre un nuovo corso, nel trattamento dei diritti degli imputati e nelle possibilità fornite a chi vorrebbe raccontarne la storia, tutelando la sicurezza di chi è coinvolto tanto quanto il diritto di cronaca. Occorre riconoscere, ribadisce Wizner, che Manning e gli altri rappresentano un fallimento dei meccanismi ufficiali di oversight, nonché del principio di accountability alla base delle democrazie moderne. E, infine, occorre riconoscere, proteggere e raccontare la storia di questi giovani uomini, che scelgono con pazienza e coraggio di affrontare un’intera società a mani nude: ecco il senso di questa citazione, riportata da Alexa O’Brien nel corso del panel, e tratta da “Niente di nuovo sul fronte occidentale”: “Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore, e la insensata superficialità congiunta di un abisso di sofferenze”.