Oltreconfine: storie e giornalisti

Oltreconfine, al di là della soglia: è dove ci portano le storie. Ed è dove Giampaolo Musumeci, filmaker, fotografo, autore televisivo e conduttore radiofonico di Nessun luogo è lontano su Radio 24, ha portato il suo pubblico durante quell’ora e mezza di spettacolo narrativo dal titolo “Oltreconfine: dalla radio al bar, l’informazione è dal vivo”Si tratta di un liveshow prodotto da Informat durante il quale diversi ospiti, tra cui reporter, attori, fotogiornalisti, musicisti e studiosi salgono a turno sul palco per raccontare fatti e storie accadute all’estero.

Il liveshow che si è tenuto mercoledì 5 aprile nella cornice del Teatro della Sapienza di Perugia si è focalizzato su quelle credenze irrazionali e superstiziose, magiche e misteriose, che sono percepite dalla comunità in modo reale, e così determinano la vita della comunità stessa e anche le scelte politico-sociali, economiche o strategiche. “Fantasmi di fumo”, citando lo scrittore statunitense Fritz Leiber.

Attraverso il racconto di Musumeci e dei suoi ospiti, Lucia Capuzzi di Avvenire, Giulia Pompili del Foglio, Antonio Talia di Informant, Giulio di Feo della Gazzetta dello Sport, Stefano Moriggi dell’Università di Milano Bicocca, Riccardo Venturi, fotografo di fama internazionale, e l’attore Carlo Decio, si è andati andati oltre il confine. Oltre il confine geografico, ascoltando storie magiche realmente accadute; oltre il confine ideologico, cercando di immedesimarci in quelle storie illogiche e irrazionali se interpretate secondo i paradigmi del pensiero occidentale; oltre il confine psico-fisico del nostro io, perché siamo entrati dentro altre storie, altre vite.

“Siete entrati da quell’ingresso, avete varcato una soglia. Siete entrati nel regno delle storie. Avete passato un confine. In questo regno, questa sera, su questo palco celebreremo il potere delle storie. Non storie qualsiasi, beninteso. Storie vere, storie giornalistiche, storie che arrivano da lontano, molto lontano, ma raccontate da chi le ha vissute da vicino, da molto vicino”, ha introdotto Musumeci.

Ma questo tipo di storie sono funzionali e utili al giornalismo? Le storie, per essere giornalisticamente valide, devono rispettare alcuni parametri, si devono ad esempio riferire ad archetipi universali, che riescano ad interessare il pubblico e restituire il contesto reale in cui sono immerse. Ci sono poi elementi che Musumeci chiama “nemici delle storie”, perché le possono uccidere, come accade con gli stereotipi e il logorio semantico di parole e immagini. L’esempio di Musumeci va agli ormai inflazionati concetti di “emergenza” o “invasione”, troppo usati per descrivere il fenomeno dell’immigrazione: il pubblico ne è talmente assuefatto che “l’emergenza non è più emergenza”. Un altro nemico è il rischio di protagonismo del narratore, quando esalta il suo ruolo nella narrazione dimenticando di compiere, una volta entrato nella storia, quei passi indietro necessari a dare voce ai veri protagonisti della storia, gli intervistati.

In un’atmosfera calda e informale, sulle note di una chitarra acustica e un salotto a fare da scenografia, con un tavolino pieno di cimeli da varie parti del mondo, gli speaker a turno hanno condiviso storie in cui l’irrazionale, il rumor, la superstizione, l’invisibile possano dispiegare i loro effetti sulla realtà.

Lucia Capuzzi ci porta ad Haiti parlando di François Duvalier, noto come Papa Doc, che fu presidente dal 1957 e poi dittatore dal 1964 fino alla sua morte. La vita reale e politica di Haiti è sempre stata strettamente legata alla religione voodoo, una “religione africana che parla di spiriti e che non vede una separazione tra mondo reale e mondo spirituale”, spiega Lucia Capuzzi.
Papa Doc era un medico, aveva studiato a fondo la cultura haitiana e si dimostrò abilissimo nello sfruttare la religione per terrorizzare il popolo. In primis, lo ha fatto attraverso il look, presentandosi sempre in pubblico con il frak nero, simbolo dello spirito voodoo Baron Samedi, il traghettatore dei morti che conduce le persone dalla vita alla morte. L’intento era quello di rappresentare se stesso come arbitro tra la vita e la morte, facendo passare di sé l’immagine della reincarnazione dello spirito stesso.

Nella strategia di Papa Doc per terrorizzare il popolo rientrò anche la creazione di una milizia informale composta dai tonton macoutes, spettri senza volto, figure cioè vestite di nero e mascherate che durante la notte si aggiravano per le strade per intimorire, torturare ed eliminare gli oppositori, di cui poi non restituivano i corpi. Il loro nome era stato sapientemente preso in prestito da una divinità voodoo, che secondo le credenze si impadronisce dei corpi delle persone e le fa scomparire – “i primi episodi di desaparesion di massa si sono verificate ad Haiti”, dice Capuzzi. Nonostante la fine della dittatura, Haiti è tutt’ora permeata di questa ritualità: la complessità e l’irrazionalità della condizione sociale haitiana “favoriscono il permanere di una cultura magica che perlomeno dia una spiegazione”.

Da Haiti si passa a Seul con Giulia Pompili, che racconta la storia dello scandalo nel 2016 che ha coinvolto la presidentessa sudcoreana Park Geun-yeh a causa della sciamana sua consigliera Choi Soon-Sil, che vantava doti soprannaturali e di cartomanzia.

Choi proveniva da una famiglia vicina da anni alla famiglia Park ed era figlia del più grande sciamano della Corea del Sud, egli stesso consigliere dell’ex presidente, padre di Park Geun-yeh. Tutto iniziò dal ritrovamento di un tablet nella stanza di Choi Soon-Sil che conteneva documenti statali riservati. Le indagini portarono alla luce una verità sconvolgente: la presidente Park si faceva scrivere i discorsi da Choi Soon-Sil, e questo indusse a pensare che la sciamana influenzava decisioni politiche importantissime  pur non avendo alcun ruolo ufficiale. Inoltre si venne a sapere che la Choi Soon-Sil aveva fatto transitare ingenti quantità di denaro dai conti di grandi aziende coreane, come la Samsung, ai conti di fondazioni da lei gestite. Lo scandalo diede luogo a un iniziale smarrimento della popolazione sul ruolo e l’azione del governo a cui seguirono un’ondata di proteste: una sorta di risveglio, tanto che “alcuni parlano di una specie di risveglio da trans”, spiega Pompili.

Il viaggio continua attraverso i fantasmi di fumo in giro per il mondo passando dall’Asia, con Antonio Talia che racconta la storia di come lo spirito-demone tibetano Dorje Shugden sia diventato una leva politica di opposizione al Dalai Lama, che ne aveva vietato il culto, arrivando fino in Africa con Giulio di Feo nella città ghanese di Keinshasa, dove ha avuto luogo la storia di Robert Mensah, fra i portieri più forti al mondo, e del suo cappello magico. Si tratta di un cappello regalatogli dal nonno che lui indossava a ogni partita e che gli avrebbe donato poteri soprannaturali e doti straordinarie durante le sue performance. Un cappello che, per la paura che incuteva agli avversari, fece sì che il grande attaccante Kagogo sbagliasse un rigore decisivo, permettendo a Mensah e alla sua squadra di vincere la finale di Coppa dei Campioni d’Africa nella grande battaglia di Kinshasa, il 24 gennaio 1971.

Con Stefano Moriggi, invece, il pubblico ascolta una storia italiana di caccia alle streghe del XVI secolo, quella delle tre bocche di cerbero, ossia delle donne di Triora, una cittadina ligure allora podesteria della Repubblica di Genova, che vennero accusate di stregoneria, torturate dall’Inquisizione e deportate.

Moriggi spiega come la filosofia possa soccorrere l’uomo dalla sua stessa natura irrazionale che lo porta a creare fantasmi di fumo. “L’uomo crea fantasmi di fumo perché è programmato a crearli”, sostiene Moriggi. E se Aristotele diceva che l’uomo è un animale razionale, non sosteneva soltanto che siamo esseri dotati di ragione, ma anche che siamo animali, quindi esseri istintivi e irrazionali. Moriggi spiega che “quando cerchiamo di dare ragioni, in realtà costruiamo fantasmi con cui cerchiamo di rendere abitabile l’irrazionale” e continua: “quello che la scienza e la filosofia insegnano è abitare i confini, soprattutto quello tra ciò che è ragione e ciò che è anti-ragione. […] Il fantasma di fumo ci abiterà sempre”.

L’ultima fermata di questo viaggio è quella del fotoreporter Riccardo Venturi nella guerra del Kosovo, dove si trovava per un reportage. Come fa un fotografo a  dare senso visivo al fantasma di fumo? Venturi sostiene che ci sono dei segnali a cui un fotografo deve stare attento per capire quali errori non deve commettere, come quelli che lui stesso ha ricevuto ma non ascoltato, quando a Pristina in un momento di scarsa produttività, un ragazzino gli si offrì come guida della città, promettendogli di fargli trovare del materiale interessante per le sue foto.

I segnali dicevano chiaramente che il ragazzino era un poco di buono e che non avrebbe dovuto seguirlo, ma lui li ignorò ripetutamente fino a quando non si ritrovò con una pistola puntata in faccia da un militare serbo. Fortunatamente, ad essere colpita e quasi disintegrata dai proiettili della pistola fu la sua macchina fotografica: un cimelio che in questa serata ha portato con sé per mostrarla al pubblico e che conserva come un monito, per ricordarsi che a volte è meglio ascoltare quella voce misteriosa, quasi magica, istintiva che è dentro di noi. Quei segnali di fumo così evidenti ma così fugaci. Perché, suggerisce Venturi, “la paura è uno strumento. La paura, innanzitutto, ti protegge”.